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Da Linkiesta

I Mondiali in Qatar in pieno autunno, nel cuore della stagione calcistica, sono un’anomalia. Sono un problema per i club, per la compressione dei calendari, per le conseguenze asimmetriche che l’impegno con le Nazionali avrà sulla salute fisica e psicologica dei calciatori da qui alla prossima primavera. E ovviamente negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere motivazioni più grandi e più importanti, dall’ambiente ai diritti umani, che spiegano perché sia un problema giocare tra Doha, Al-Khor e Lusail. Si può riassumere tutto nel mea culpa di Sepp Blatter – ex numero uno della Fifa – di qualche giorno fa, quando ha ammesso che all’epoca l’organo di governo del calcio mondiale commise un grave errore.

Era chiaro fin da subito che l’assegnazione della manifestazione sportiva più importante al piccolo emirato mediorientale avrebbe avuto conseguenze di un certo tipo sull’intera industria del calcio. Ma forse all’epoca nessuno era in grado di mettere tutto nella giusta prospettiva, anche perché in un primo momento era prevalso soprattutto il senso di stupore e sorpresa misto a mistero e curiosità per un evento che si sarebbe realizzato in condizioni inedite.

Lo stesso percorso che ha portato la Fifa ad assegnare i Mondiali al Qatar è una strada piena di curve e strettoie, una storia articolata, complessa, stratificata. L’ha raccontata Andrew England sul Financial Times, in un lungo articolo pieno di dettagli e retroscena, in cui la stessa candidatura del Qatar viene definita «donchisciottesca».

Perché ovviamente una città-stato con una popolazione di poco meno di tre milioni di abitanti non disponeva delle infrastrutture per ospitare centinaia di migliaia di visitatori contemporaneamente, e la cultura ultraconservatrice dell’emirato avrebbe offerto un ambiente molto diverso da quello a cui sono abituati gli spettatori europei, americani e asiatici.

Però il Qatar aveva disponibilità economica praticamente infinita, somme generate dalle riserve di idrocarburi, e la monarchia era determinata a ospitare la prima Coppa del Mondo in Medio Oriente.

«Il giovane avvocato Hassan al-Thawadi, figlio di un diplomatico eloquente e poliglotta, nominato un anno prima amministratore delegato della candidatura del suo Paese, ha passato mesi ad attraversare il mondo per raccogliere sostegno per l’offerta, in particolare tra quelli al di fuori dell’establishment calcistico tradizionale», si legge sul Financial Times, in un passaggio in cui vengono descritte le classiche dinamiche dell’assegnazione dei Mondiali: con una decina d’anni d’anticipo sull’edizione in questione, la Fifa invita i membri a presentare i loro nomi per l’organizzazione, e i Paesi hanno circa un anno per finalizzare le loro offerte. Sono mesi frenetici, in cui si mette in moto la macchina organizzativa della politica, fatta di pianificazione, lobbying e accordi dietro le quinte.

«Nel dicembre 2010 – racconta England nel suo articolo – la presentazione finale di Thawadi si è svolta al quartier generale della Fifa davanti a un pubblico che includeva primi ministri, reali e calciatori famosi, nonché delegazioni di Paesi rivali. Thawadi è salito sul podio e, in perfetto inglese americano, ha fatto la sua offerta un’ultima volta. Nella delegazione, seduto tra persone che stava cercando di convincere, e quelli che stava cercando di superare, c’era l’uomo responsabile dell’offerta del Qatar: lo sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani, allora l’emiro del Paese».

Thawadi si era preoccupato di toccare tutti i punti chiave, a partire dal caldo – che non sarebbe stato un problema «grazie a una tecnologia di raffreddamento in grado di regolare le temperature anche negli enormi stadi all’aperto» – fino alla geopolitica: «Svolgere il torneo in Medio Oriente» avrebbe fatto da ponte «tra il mondo arabo e l’Occidente». Sarebbe stata una scommessa audace, ma non c’erano rischi, diceva Thawadi.

Quando il giorno successivo Blatter aveva annunciato «Qatar», leggendo il bigliettino nella busta che conteneva il nome del prossimo Paese ospitante, tutto il mondo era rimasto a bocca aperta. Era la fine di un percorso lunghissimo, iniziato probabilmente negli anni Sessanta, in maniera del tutto inconsapevole.

«I semi di una Coppa del Mondo ospitata dal Qatar potrebbero essere stati piantati in Inghilterra nell’estate del 1966», si legge sul Financial Times. «Il futuro emiro, al-Thani, e il suo amico Abdullah bin Hamed al-Attiyah, erano adolescenti che frequentavano la scuola estiva nel Regno Unito. Tornati a casa a Doha, si divertivano a giocare a calcio ad al-Bidda, un quartiere del centro. Lo sceicco Hamad, la cui dinastia ha governato il Qatar dal 1850, era capitano della squadra».

Quando Hamad e Attiyah erano stati in Inghilterra, la Nazionale di Sua Maestà aveva vinto la Coppa del Mondo: guardando le strade colorate, la gioia dei tifosi e l’esaltazione dell’Inghilterra, la famiglia reale qatariota iniziava forse a maturare la consapevolezza della grande importanza sociale, economica, politica, rivestita da questo sport, e dai Mondiali in particolare.

In quegli anni il Qatar non aveva ancora le ricchezze di oggi. Per secoli il Paese aveva poggiato la sua economia sul commercio delle perle. Poi il crollo dell’industria negli anni Trenta si era rivelata disastrosa. Le cose erano cambiate di nuovo dopo la Seconda guerra mondiale, con una rinnovata domanda di idrocarburi proveniente da tutto il mondo.

Ma solo a partire dagli anni ’90 una serie di scommesse ad alto rischio aveva spinto la trasformazione del Paese. I governanti del Qatar, con Attiyah come ministro dell’Energia, avevano deciso di scommettere sul gas, in particolare sul gas naturale liquefatto (Gnl), nonostante l’abbondante scetticismo che li circondava.

La storia gli avrebbe dato ragione: «Un rapido e massiccio accumulo di ricchezza aveva messo Doha sulla cartina del mondo e dato fiducia alla famiglia al-Thani, in particolare allo sceicco Hamad, che dal 1995 ha iniziato a modernizzare lo Stato», con investimenti in ogni settore, in particolare con la nascita dell’emittente Al Jazeera, oggi riconosciuta in tutto il mondo.

Intorno alla metà degli anni Duemila, il Qatar è diventato il principale esportatore mondiale di Gnl e ha istituito un fondo sovrano che oggi gestisce asset per circa 450 miliardi di dollari. Solo da quando è stata assegnato il Mondiale del 2022, l’emirato ha investito più di duecento miliardi di dollari in infrastrutture e megaprogetti, inclusi 6,5 miliardi di dollari in stadi e altre strutture destinate alle squadre.

Tutta questa attenzione, però, ha posto lo Stato parecchio in vista, esponendolo a critiche e giudizi: «Nel giro di pochi mesi sono state avanzate accuse di corruzione contro i membri del comitato esecutivo della Fifa che ha assegnato i Mondiali 2018 e 2022 a Russia e Qatar. Il Sunday Times ha individuato due membri della Fifa che sarebbero stati pagati 1,5 milioni di dollari dal Qatar per i loro voti. Le autorità del Qatar hanno negato le accuse», ricorda il Financial Times.

E poi ovviamente ci sono gli enormi scandali sui diritti dei lavoratori impiegati, le inchieste che hanno rivelato migliaia di morti per condizioni di lavoro disumane, l’approccio illiberale con la stampa straniera. In generale, la nuova visibilità dello Stato ha comportato onori e oneri, dal momento che ha legato – anche se principalmente per motivi di business – il Qatar alle democrazie liberali dell’Occidente.

L’avvicinarsi del torneo ha intensificato e amplificato critiche e attenzioni verso le nefandezze del Qatar in materia di diritti umani. Alcune federazioni calcistiche, come quelle di Francia e Germania, hanno proposto alla Fifa di fornire un fondo di compensazione per i lavoratori migranti di 440 milioni di dollari, l’equivalente del montepremi della Coppa del Mondo. Gruppi di tifosi e altri stakeholder del calcio hanno annunciato boicottaggi. Doha negli ultimi mesi ha provato più volte a dimostrarsi un Paese in evoluzione, in una transizione verso un cambiamento, senza grossi risultati.

Al di là della credibilità degli annunci provenienti da Doha – che contrastano con altre dichiarazioni degli stessi organizzatori –, il rischio più grande è che dopo il primo calcio d’inizio si guardi solo al pallone che rotola, al calcio, al gioco. Durerà fino al 18 dicembre. E forse quella sarà anche la data in cui il mondo smetterà di interessarsi a ciò che avviene in Qatar.

Nell’immagine: Hamad bin Khalifa al-Thani






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