Il futuro di Assange è un po’ anche il nostro
È dal confronto con i fatti, con le evidenze, con le prove, che il nostro modo di vedere il mondo può cambiare, anche uscendone rafforzato. Ridurre al silenzio Julian Assange negherebbe tutto questo
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È dal confronto con i fatti, con le evidenze, con le prove, che il nostro modo di vedere il mondo può cambiare, anche uscendone rafforzato. Ridurre al silenzio Julian Assange negherebbe tutto questo
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Karl Popper ammoniva saggiamente a valutare i prodotti, non gli autori. A ragionare del cosa senza fermarsi al chi. È attesa a breve la decisione dell’Alta Corte inglese sull’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti. Mai sottoposto a processo, Assange vive da dodici anni privato della propria libertà: prima, per sette anni è vissuto confinato nell’ambasciata dell’Ecuador nel Regno Unito. Negli ultimi cinque è stato incarcerato a Belmarsh, una prigione inglese dove sono rinchiusi terroristi e criminali che devono scontare gravi pene. Assange ha 52 anni: stiamo parlando grosso modo di un quinto della sua vita. Oggi è l’unico giornalista in galera nel Regno Unito.
Com’è noto, se venisse estradato negli Stati Uniti sarebbe sottoposto a processo. Per i diciassette capi d’accusa, la condanna potrebbe raggiungere i 175 anni. La logica è quella della punizione esemplare.
Assange è stato oggetto di una vera e propria character assassination. Il suo sito, Wikileaks, nasce per portare a conoscenza dell’opinione pubblica, con editing minimale, documenti e notizie che i governi (o i grandi attori dell’economia privata) preferirebbero non fossero noti. Il caso più famoso è quello del video “Collateral Damage”, filmato che fa parte della documentazione trasmessa ad Assange da Chelsea Manning (allora Bradley Manning), soldato di stanza in Iraq dove lavorava come analista dell’intelligence. Il video mostrava l’assassinio di diciotto civili, fra cui due bambini feriti e due giornalisti dell’agenzia Reuters, da parte di soldati statunitensi in Iraq, a bordo di un elicottero.
Fra i molti leaks di Wikileaks – dove sono atterrate col tempo notizie che altrimenti non avrebbero mai visto la luce – ci sono anche le email della campagna elettorale di Hillary Clinton, nel 2016, “rubate” da hacker russi (da allora, uno dei comprimari obbligati di qualsiasi elezione che abbia un esito sgradito). Che una potenza straniera metta una fiche su un candidato presidente in un altro Paese non è certo una novità. Tutto da dimostrare è che sia stato quell’aiuto a determinarne il successo. Donald Trump può non piacere, ma è difficile sostenere che la sua popolarità fosse (o sia ancora) frutto esclusivo di una sapiente manipolazione dei social media. Senz’altro la sua amministrazione non ha riconosciuto in Wikileaks un alleato elettorale: se Obama aveva offerto il perdono presidenziale alla whistleblower Chelsea Manning, sono stati i trumpiani a riaprire la guerra a Wikileaks.
C’era una volta un precetto del buon giornalismo che suggeriva di verificare le fonti: nel senso di controllare che offrissero notizie attendibili, non di scremare gli informatori “buoni” da quelli “cattivi”. Più e più volte è capitato che un direttore di giornale dovesse scusarsi con politici e interlocutori amici per aver dato atto di vicende poco commendevoli ed elettoralmente dannose. Non si può non dare una notizia, era il mantra di una generazione di professionisti dell’informazione.
Era.
Oggi l’opinione pubblica è talmente polarizzata, talmente divisa attorno al chi e mai al cosa, che il caso Assange accende solo ben localizzati focolai di simpatia. Quelle persone e quegli ambienti che di solito assumono una postura garantista, giustamente preoccupati per l’esondazione del potere giudiziario, che denunciano le condizioni delle carceri e che sono abituati a ricorrere al vocabolario della libertà e dei diritti sono tipicamente indifferenti al destino di Assange. Il fatto che le accuse di stupro da parte delle autorità svedesi (lì comincia il suo calvario) non siano mai state effettivamente provate, l’evidenza di torture psicologiche durante il suo confinamento all’ambasciata ecuadoriana, la patente sproporzione fra le accuse che gli vengono rivolte e il trattamento penitenziario che ha già subito: nulla di questo sembra interessare. La vicenda Assange è ridotta a una dimensione quasi fumettistica: i suoi capelli bianchi incorniciano il volto di un villain da grande schermo, raccontato come una figura a dir poco ambigua nel film The Fifth Estate . L’etichetta di stupratore gli è rimasta appiccicata addosso. Il sospetto di connivenza col Cremlino ne fa un nemico dell’Occidente.
Ma se andiamo al nocciolo della questione, essa ci appare di disarmante semplicità: Assange ha dato notizie che non dovevano essere date.
Gli arcana imperii attraversano tutta la storia della politica. Ci sono cose che gli Stati fanno e non si devono sapere. Esse hanno natura differente: è diverso occultare un’operazione militare dagli esiti sanguinosi, nascondere il ricorso alla tortura, oppure mantenere in vita canali di diplomazia segreta, per evitare che persino nei conflitti si oltrepassino certi confini. Probabilmente senza la “segretezza cattiva” non si potrebbe avere nemmeno quella “buona”.
La norma che gli Stati Uniti puntano contro Assange è l’Espionage Act, che non a caso risale al 1917 ed era pensata per prevenire interferenze con le operazioni militari, il reclutamento e l’insubordinazione nelle forze armate. La sua applicazione è sempre stata controversa. Il senatore Daniel Patrick Moynihan auspicava, a fine anni Novanta, che la cultura della segretezza che essa aveva contribuito a forgiare lasciasse il passo a una “cultura dell’apertura”: più coerente con la società americana e anche più proficua (la segretezza poteva facilmente coinvolgere anche informazioni che meritavano di circolare e dunque produrre inefficienza, come in Unione Sovietica). Moynihan citava il sociologo Edward Shils che, dopo il maccartismo, aveva pubblicato The Torment of Secrecy. La segretezza è “riservatezza resa obbligatoria” ed è incompatibile e controproducente per una società libera: sono maggiori i danni che crea (anche alimentando teorie del complotto) dei benefici che produce.
Shils scriveva nel pieno della Guerra fredda, quando, nonostante le necessità, vere o presunte, della sicurezza nazionale, era impossibile non interrogarsi su ciò che distingueva – che doveva distinguere – gli Stati Uniti dal loro avversario. Se è vero che i governi cercano sempre di nascondersi, è altrettanto vero che nelle nostre società c’è qualcuno che prova a stanarli. Il fatto che il pezzo di mondo in cui viviamo sia fra i più liberi della storia non è indipendente dall’esistenza di una libera stampa che si pensa come un contropotere. Quello che è vero per il gioco delle opinioni, che dal loro pluralismo e dal conflitto che si sviluppa fra le une e le altre si può arrivare a discernere quelle più plausibili, è ancora più vero per i fatti. Se viene meno la possibilità di cercare di accertare questi ultimi, anche le opinioni sono destinate a rimanere superficiali, a riflettere ancora di più l’appartenenza di ciascuno e poco altro. È dal confronto con i fatti, con le evidenze, con le prove, che il nostro modo di vedere il mondo può cambiare o uscirne rafforzato.
Si può considerare un nemico dell’Occidente chi ha svolto un ruolo così cruciale, per una società libera e appunto “aperta”? Vogliamo davvero affermare che ciò che conta non è la veridicità di un documento, ma gli intenti del whistleblower che ce l’ha passato? Siamo convinti che un editore debba essere considerato responsabile non dell’accuratezza di ciò che pubblica, ma delle intenzioni di chi gli ha fornito quel materiale?
Sono queste le domande che bisogna farsi su Assange, adesso che siamo alla vigilia della sua probabile [o possibile?] estradizione negli Stati Uniti. Chi rifiuta anche solo di pensarci abbraccia la logica dell’amico del mio nemico che è necessariamente mio nemico lui stesso, o quella del mio Paese è il mio Paese, che abbia ragione o abbia torto. Sono posture intellettuali antiche quanto i segreti di Stato ma al fondo incompatibili con un’idea minimamente seria di che cos’è una società libera. Rafforzano semmai la caricatura che di queste società si fa altrove, dove la nostra libertà viene raccontata come un gioco di specchi per coprire gli interessi delle nostre classi dirigenti.
Forse anche il caso Assange rientra semplicemente nella grande tendenza degli ultimi anni: pensare che la realtà è come me la racconto io e me la raccontano i miei amici, fuggire il confronto con prospettive diverse, rifiutare l’esercizio difficile di costruire argomenti o cercare prove. Se questo è lo spirito del tempo, lo spazio delle fragili, precarie, imperfette istituzioni liberali è destinato a continuare a ridursi. Il futuro di Julian Assange è in qualche misura anche il nostro.
Nell’immagine: un fotogramma del video chiamato “Collateral Damage”
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