Cittadine e cittadini, abbiate fede
La responsabilità sociale esiste…
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La responsabilità sociale esiste…
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Come primo, la gloria e immagine della piazza finanziaria svizzera. Che si è data da tempo, a scanso di sorprese, la sua bandiera salvatutto nel “troppo grande per fallire” o nella banca “sistemica. Quanto a dire: come non assecondare, come non accomodare limitandosi a qualche buffetto cautelativo, come non essere pronti a perdonare stendendo una copertura pubblica su un forziere inflessibilmente ma “liberalmente” privato quando sai che, altrimenti, metteresti a repentaglio l’economia e il buon nome della Svizzera? A maggior ragione quando uno dei pilastri del sistema, il segreto bancario, ce l’hanno già tolto sotto i piedi, nonostante la ferma opposizione del popolo svizzero.
Poi, come secondo fattore, la “performance”, il criterio pressoché unico sul quale puoi essere giudicato. Che significa ottenere ogni anno una percentuale di performance sempre superiore alla precedente: in termini di bilancio, di corso azionario, di dividendi distribuiti. Puoi anche guadagnare, ma se quella percentuale di crescita è minore rispetto all’anno prima, o trovi un capro espiatorio di rango inferiore o devi riaggiustarti. È così che si dà avvio alla frenetica rotazione. Significa dunque credere in una unica filosofia o norma di comportamento: il profitto è solo funzione del rischio. E quanto più sai fare con il rischio, senza porti limiti finanziari né tanto meno etici, tanto più hai probabilità di prendere la targa dorata della “performance”.
La quale sconfina fatalmente nell’avidità. Più conosciuta, com’è ovvio, con il termine della dottrina anglosassone: “greedy” (“be greedy when others are fearful”, “sii avido quando gli altri hanno paura”, sentenziava ancora negli scorsi giorni un adepto che se ne intende, l’americano Warren Buffet).
Milton Friedman, uno dei padri dell’economia dominante, si era accorto che forse ci poteva essere un problema. Diceva infatti: “Il problema dell’organizzazione sociale è come creare un accordo in base al quale l’avidità procuri il minimo danno possibile; il capitalismo è quel tipo di sistema”. Utopistico anche lui, non tanto quanto l’illusionista socialismo, più impegnativo.
Per questo la “performance” ha poco a che fare con il merito, se non per il significato etimologico e, quindi, paradossalmente per quel che suggerisce il buon vecchio latino (meritum viene infatti da mereri, che vuol dire guadagnare). Dà infatti vita ad un’altra strabiliante funzione: più hai azzeccato la percentuale di maggior performance, più moltiplichi i milioni del tuo stipendio e dei bonus. E più, nella tanto esaltata managerialità o “governance” (o gestione aziendale), importate di malapianta dall’America, sei insofferente al buon senso e persino alla logica economica. Che, dopo crisi tremende, sono state costrette a imporre un minimo rapporto tra fondi propri e investimenti (più o meno speculativi). E quindi performance, avidità, insofferenza alle regole spronano tutti all’assumersi più rischio e a confondere, come si è spesso dovuto ammettere, finanza e casinò.
Sovra tutto, come terzo fattore, quello che è stato definito “il paradigma del capitalismo azionariale”. Che cosa si intende? Per dirla in termini semplici, a partire dagli anni ’80 (rivoluzione neoliberista?), un nuovo quadro di gestione o manageriale è emerso negli Stati Uniti, esportato subito in Europa. L’obiettivo delle aziende dev’essere esclusivamente quello di fare profitti, quindi di creare valore per i propri soli azionisti (shareholder), ottenere il rendimento massimo del capitale.
È quello che è stato definito “Shareholder Capitalism”, che ha rappresentato la scuola di pensiero dominante. Tuttavia, caso da segnalare perché è un implicito riconoscimento di fallimento, nell’agosto dello scorso anno, l’America’s Business Roundtable (associazione dei Ceo delle corporation americane) aveva lanciato sul Washington Post un manifesto proclamante la necessità di abbandonare la dottrina della “shareholders value” o del primato della massimizzazione del valore per l’azionista, cardine del neoliberismo, perché fonte di infiniti guai.
Dottrina che ha comunque influenzato tutti i processi bancari: dalla misurazione della “performance” economica conferendo al valore ottenuto dall’azionista (shareholder value) una posizione centrale nella valutazione, dimenticando tutto il resto (il lavoro, ad esempio, ridotto solo a un costo); la visione sempre cortoterminista (causa anche sia della crisi energetica attuale sia di quella climatica); ai sistemi incentivanti dei “manager” (superbonus); alle nuove competenze di cui era necessario dotarsi (ricorso nella Svizzera “sovrana” a dirigenti esteri strapagati ritenuti più performanti, rotazione impressionante dei vari Ceo; emblematico ora il richiamo di Ermotti alla guida dell’Ubs). Altro che responsabilità sociale!
Ed è da qui che è scaturita l’eterna domanda cui non si dà mai risposta: la finanza deve servire l’economia o, viceversa, deve servirsene? Anche se c’è chi scrive, terminando un articolo sulla “responsabilità sociale dopo il caso Credit Suisse”, quasi fosse ritornata in forze: “Oltre il 90% del fabbisogno di investimento potrebbe essere finanziato dalle banche principalmente tramite crediti bancari e ipoteche. Più la ricchezza si concentra in mano a poche aziende e persone, più si concentrano anche le responsabilità. È in gioco il nostro benessere. Cittadine e cittadini possono fidarsi”. Mancava solo aggiungere: siamo riconoscenti a chi ci salva!
C.D.D., come dovevasi dimostrare, come nella soluzione scontata delle vecchie equazioni. Dunque: la responsabilità sociale esiste. Proibito pensare diversamente. Dopo quel che è capitato e come si è risolto, la fede dev’essere salda. E saldamente svizzera. Se questa non è un’ideologia… è certamente una religione.
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