Ormai è tutto un serrare i bulloni in fatto di immigrazione, soprattutto quella irregolare. Lo ha deciso negli scorsi giorni
l’UE, dopo lo scontato naufragio della norma per la ridistribuzione dei rifugiati fra i 27 paesi comunitari, pur sapendo che quelli del gruppo di Visegrad lo avrebbe respinto (dall’Ungheria alla Polonia, dalla Slovacchia alla Bulgaria). E ora lo ha deciso anche Emmanuel Macron, pur essendo al secondo e ultimo quinquennio, per privare gli xenofobi della loro principale carta politica.
Pensava, il presidente teorico del “non esistono più destra e sinistra”, di cavarsela grazie all’accordo con i Repubblicani post-gollisti. Ha invece incassato il “regalo avvelenato” di Marine le Pen, che per la prima volta in parlamento ha abilmente votato a favore della riforma. Un trappolone. E triplice immediato effetto: frattura nella maggioranza relativa presidenziale (malumori della parte più progressista del suo schieramento, e dimissioni immediate del suo ministro della Sanità, Aurelién Rousseau, figlio di una storica militante comunista, e già capo di gabinetto di due premier di sinistra); fine della cosiddetta “disciplina repubblicana”, quella che nella Quinta Repubblica univa tutte le forze contrarie al lepenismo nel momento in cui l’ex Fronte Nazionale aveva qualche chances di imporsi in elezioni o più di recente in votazioni all’Assemblée Nationale; quindi ulteriore e forse definitivo appannamento dell’immagine della “Francia patria dei diritti umani”.
Con una quasi certezza: se ci sarà da scegliere fra una politica che non dimentica del tutto l’accoglienza e una che vuole semplicemente eliminarla, gli elettori preferiranno votare l’originale, come accade da tempo in altre nazioni. E a convincerli del contrario probabilmente non basterà l’asprezza dei nuovi provvedimenti: “preferenza nazionale” che riserva ai francesi l’assegnazione di case a la garanzie dei servizi sociali; fine dello ‘ius soli’, per cui chi nasceva in Francia era automaticamente cittadino francese (ora dovrà aspettare il 16esimo o 18esimo anno di età), ‘ius soli’ che non venne adottato dalla sinistra bensì dal generale de Gaulle; forte inasprimento sulla possibilità del ricongiungimento famigliare, leggi varate dal governo di Jacques Chirac; restrizioni e tasse supplementari per gli studenti stranieri (non quelli europei), per decenni vanto della inclusiva e sbandierata cultura francofona, ma giovani universitari che in futuro saranno costretti a pagare una cauzione penalizzante, e non solo le tasse d’iscrizione.
Sintesi dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, apprezzato per la sua moderazione: in questo modo “Macron ha concesso all’estrema destra tutto quello che aveva chiesto; la destra tradizionale è soddisfatta; quanto alla sinistra restano solo le lacrime per piangere di fronte a una tale regressione tinta di razzismo” (senza però dimenticare che fu comunque un premier socialista, Rocard, a dichiarare che il suo paese “non poteva diventare la poubelle, il cestino della spazzatura, dei fenomeni migratori”). Non a caso il più entusiasta per la svolta presidenziale è il ministro degli interni Gérald Darmanin, una sorta di prefetto di ferro, espressione della destra del macronismo, e fra i principali aspiranti all’Eliseo nel 2027. Mentre i sondaggi, l’ultimo pubblicato da ‘Le Monde’, vede al primo posto il partito della Le Pen a sei mesi dalle elezioni europee, cruciale test elettorale che potrebbe consegnare alle forze del nazional-populismo continentale i numeri necessari a sconvolgere gli attuali equilibri al parlamento di Strasburgo-Bruxelles. Possibile inizio della fine per l’UE, che per definizione non può essere la somma di contrastanti sovranismi.
Il maldestro passo di Macron (che pateticamente ripete “la legge si può ancora cambiare in alcuni punti”) coincide paradossalmente con un documento del MEDEF, l’associazione delle industrie francesi, che mentre si aggrava la mancanza di manodopera per molti settori produttivi, segnala che nei prossimi anni occorreranno oltre tre milioni di nuovi lavoratori dall’estero per riequilibrare il mercato del lavoro nazionale. Oltretutto, nella fase in cui Parigi registra il punto più basso, se non di vera e propria crisi, della “Franciafrica”, il rapporto speciale (accusato di neo-colonialismo) con diversi paesi sub-sahariani.
Pessimo risultato, quindi, per un presidente che dopo la prossima uscita dall’Eliseo rischia di essere ricordato, nonostante alcune necessarie riforme (ma anche con l’anti-democratico ricorso al voto di fiducia per cortocircuitare l’opposizione), come il presidente dei ricchi (fiscalmente avvantaggiati) e l’affossatore della Francia generosa e umanista, pur con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, nei confronti soprattutto degli immigrati dalle ex colonie. Certo, De Gaulle agiva in un’altra epoca storica. Ma era anche un leader di altro spessore. Capace di affrontare anche passaggi impopolari e pericolosi. Come l’indipendenza da lui concessa all’Algeria. Che gli costò una serie di attentati. “E’ che sparano anche male”, fu il suo laconico commento.