Il ritorno della realtà
La pesantezza, la leggerezza, così la realtà ci disorienta
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La pesantezza, la leggerezza, così la realtà ci disorienta
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Anticipare quale sarà il giudizio storico sul 2022 è difficile, quindi non ci provo nemmeno. A livello personale, però, posso dire di aver attraversato negli ultimi mesi, e come mai prima, una condizione prolungata di insufficienza emotiva. Troppo grandi gli eventi, troppo concreti. Dal 24 febbraio in poi ho cozzato più volte contro il fondo duro, metallico del mio sentire. Al punto che arrivato a settembre, quando è iniziata la rivoluzione in Iran con i suoi tratti feroci e insieme galvanizzanti, ero a corto di energie vitali da investire. Mi sono trovato ad assistere al martirio di ragazzi e ragazze neanche maggiorenni con un’impressione colpevole di estraneità.
Duro, metallico, livido: il 2022 che termina chiama a sé aggettivi di quel campo semantico, ha i colori dell’acciaieria Azovstal. Venivamo da anni quasi immateriali, anni di contagio trasparente, di connessioni virtuali e fantasie astratte di metaverso, anni di «leggerezza», non nel senso spensierato ovviamente, semmai il contrario, durante i quali avevamo sviluppato perfino una qualche nostalgia dell’universo fisico. D’un tratto siamo stati precipitati a terra, riconvocati severamente dalla materia, dall’imperativo cupo della forza di gravità. Da mesi cerchiamo, con successi alterni, di mediare fra questi due opposti. La pesantezza dei cingoli dei carri armati che entrano in territorio ucraino e la leggerezza delle nostre parole contro ogni guerra.
La pesantezza dei blocchi di cemento schiantati al suolo dalle bombe e la leggerezza delle teorie geopolitiche nei talk show, a cui affidiamo il compito di far evaporare quella sostanza così densa, per poterla tollerare. La leggerezza del gas russo e la pesantezza del fango ucraino. La leggerezza eterea di Starlink, che dal cielo garantisce la connessione al popolo aggredito, e la pesantezza dei missili che piovono da quello stesso cielo, che sventrano le abitazioni civili e non sembrano lanciati solo da un altro territorio ma anche da un altro secolo. La pesantezza delle fosse comuni di Bucha e la leggerezza avvilente delle organizzazioni sovranazionali, che richiamano, che ammoniscono, che invitano: avevamo affidato loro la tutela della nostra pace, ma d’un tratto le scopriamo deboli, ricattate. La leggerezza oscena dei droni iraniani, gli Shahed-136, appena duecento chili l’uno, che uniscono simbolicamente due Paesi diversamente deragliati come la Russia e l’Iran.
E anche lì, in Iran: la leggerezza della chioma di Mahsa Amini, di tutte le ciocche tagliate per solidarietà, dei ragazzi e delle ragazze che per strada fanno saltare i turbanti degli anziani ultraconservatori e dei nostri hashtag per ripostare quei video, contro la pesantezza del corpo di Majidreza Rahnavard, ventitré anni, impiccato a una gru.
Leggerezza e pesantezza: già mentre la formulavo mi suonava come un’opposizione non originale, non mia. Milan Kundera l’ha riconosciuta molto prima, in un contesto di invasione e carri armati non così diverso dal presente, e ne ha parlato come della «più misteriosa e più ambigua fra tutte le opposizioni». Strana coincidenza: quel libro, che da ragazzo ho schivato perché mi sembrava troppo di moda, è sul mio comodino dallo scorso gennaio, l’unico rimasto lì per tutto l’anno senza una ragione apparente, a meno di non credere che i libri abbiamo la capacità di farsi trovare e talvolta anche di rimanere dove servono.
La mia amica Kateryna, poetessa e scrittrice per l’infanzia ucraina, è stata nei giorni scorsi a visitare le aree del sud liberate nella controffensiva. Mykolaïv, Kherson. Quando la connessione funzionava e non c’erano allarmi aerei mi mandava fotografie di ciò che aveva visto durante il giorno. Carcasse di auto accatastate, un muro crivellato di proiettili, filo spinato, edifici mutilati dai missili. Mai una figura umana, tanto meno un ritratto di sé da cui trasparissero emozioni: solo oggetti muti. Spesso non sapevo come rispondere a quelle immagini, perciò non rispondevo. Ammutolito anch’io dal silenzio che intuivo in quei paesaggi. D’altra parte, erano le ore in cui mi affannavo tra i negozi per finire i regali. Interpretando il mio silenzio, Kateryna ha scritto: «Dimmi se preferisci che smetta, non voglio rovinarti il Natale». Allora mi ha preso un moto di insofferenza, perché sapevo che era vero il contrario: forse non voleva rovinarmi il Natale ma di certo voleva appesantirlo con tutta quella realtà. Non ne avevo avuto abbastanza? Non ne abbiamo avuto tutti abbastanza a questo punto, di realtà, di materia, di gravità? A distanza di qualche giorno, però, gliene sono grato. Ecco una frase di Kundera che non avrei capito davvero se avessi letto il libro quando era così di moda e io ancora così giovane, ma che capisco al termine di un anno come questo: «Se l’eterno ritorno è il fardello più pesante, allora le nostre vite su questo sfondo possono apparire in tutta la loro meravigliosa leggerezza».
Nell’immagine: Stefano Bombardieri, “Il peso del tempo sospeso” (2020)
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