A pezzi (un racconto)
A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - “Quello che perde i pezzi”, di Daniele Dell’Agnola
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A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - “Quello che perde i pezzi”, di Daniele Dell’Agnola
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A vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Gaber - “Quello che perde i pezzi”, di Daniele Dell’Agnola
Al prof. è venuta l’idea di leggere il racconto Il mister di Marco Lodoli, la storia di un talento del calcio che si trova a battere il rigore decisivo del campionato mondiale. Prima di prendere la rincorsa, il protagonista pensa alla sua vita, la riordina, così scopriamo che il padre l’ha costretto a praticare questo sport. L’itinerario esistenziale del ragazzo lo porta, all’apice della sua carriera, a decidere di tirare il pallone “sopra la traversa, nel vento largo dell’idiozia”. Il prof. non vede l’ora di spiegare l’immagine del vento largo, di individuare i cambiamenti interiori del personaggio, di ragionare sulla libertà, le scelte, le relazioni con i genitori.
Ora legge il racconto, modula la voce, muove le mani, s’accende, senza accorgersi che gli occhi sono spariti dalla faccia di Martino e José, gli allievi dell’ultima fila sono rimasti senza bocca e l’orecchio sinistro di Selene sta scivolando giù per il collo della ragazza, mentre quello destro rotola via silenziosamente, e c’è addirittura un cuore che batte sotto il lavandino: pompa a vuoto. Ignoto il proprietario.
Quando rivolge lo sguardo alla classe, l’uomo, spaventato dallo scenario, emette un tragico grugnito.
Ma suona il campanello, i ragazzi si ricompongono, escono dall’aula con i loro corpi solidi e qualcuno saluta sparendo nel corridoio:
“Non se la prenda, prof.”
Lo saluta anche la Tripletti:
“Tutto bene, collega?”
“Sono a pezzi e ho le allucinazioni.”
“Scommetto che ancora una volta hai fatto lezione senza mettere le competenze trasversali.”
“Come, scusa?”
Nel frattempo Tripletti, con gran leggerezza, sta già scendendo le scale ridacchiando sulla battuta del collega: “Sono a pezzi”. E inizia a canticchiare Gaber:
“Perdo i pezzi, ma non è per colpa mia…”
Poco dopo, passeggiando verso la stazione ferroviaria, l’uomo pensa che ci aveva lasciato il cuore, per la Tripletti. Quanto innamorarsi senza chiuderla mai. Poi sbircia le luci natalizie delle palazzine dove abitano Martino, Selene, Chiara e Sophie, le finestre delle stanze illuminate dai cellulari.
Fa freddo, dunque cerca di infilare le mani nelle tasche, ma non ci sono più. Le mani, non le tasche. Disorientato, in affanno, cerca i piedi, le ginocchia, le braccia, e vorrebbe guardarsi la faccia per verificare di averla ancora, ma del prof. rimangono solo un cervello, due occhi e due orecchie molto sensibili sospese nel vento, ora sopra alla stazione, al quartiere, alla città. Improvvisamente le orecchie, ancora sottilmente collegate al cerebro, sentono da lontano la canzone che la Tripletti canticchiava giù per le scale. La voce di Gaber viene da lontano, ma è penetrante:
Il polpaccio nella mia vita non è determinante
…quando m’è caduto non me ne sono neanche accorto
Perdo i pezzi, ma non è per colpa mia
Se una cosa non la usi, non funziona
Ma che vuoto, se un ginocchio ti va via
Che tristezza, se un’ascella ti abbandona…
Io l’amavo tanto, che ci ho lasciato in cuore…
C’è un disordine in città, io lo capisco…
Come tutti perdo i pezzi piano piano…
“Com’è che sono finito a pezzi anch’io?” pensa il cervello del prof in volo sopra le luci piccole delle case, sopra i serpenti delle strade, sempre più in alto, tra il Pizzo Paglia, il Torrone Alto, il Monte Tamaro e poi giù, sopra il progresso.
“Non voglio mica sparire, ché domani devo spiegare cos’è la subordinata oggettiva e leggere L’uomo che piantava gli alberi e far capire ai ragazzi che un testo deve essere coerente e coeso, insomma, i connettivi, la coerenza nell’uso dei tempi verbali.” “Intanto” pensa “c’è di buono che ragiono molto bene, ora c’ho praticamente un gran testone, cioè un cervello, ma non posso rientrare a scuola sotto questa forma.”
Il giorno dopo il prof. non si presenta a scuola. Gli allievi lo aspettano per dieci minuti davanti alla porta dell’aula, poi Martino decide di avvisare la direttrice che fa diverse telefonate, finché ad un certo punto un gruppo di studenti bisbiglia felicità: due ore buche! Diverse insegnanti s’aggirano agitate nei corridoi. Nel frattempo i pezzi dell’insegnante sono ormai diventati parte di una cintura asteriodale nell’esosfera, ma c’è un dettaglio, una piccola cosa rimasta sopra la città: è il testicolo del prof. che fa il ronzio di un drone kamikaze. E, come se anche quel testicolo avesse la capacità di produrre un pensiero, nominare un paio emozioni, o addirittura di contemplare il creato, sussurra:
“E la democrazia? Come sta la democrazia? Che disagio, che umiliazione, qua, sopra la città.”
La storia però non finisce qui, perché a fine pomeriggio la polizia dirama un comunicato di scomparsa mentre la giovane allieva Selene, invece di uscire dalla scuola, si sofferma a osservare l’aula prima di accendere la lavagna elettronica e scrivere con il pennarello digitale: “Prof., faccia come vuole, però così non serve a niente. Torni a fare il suo lavoro.”
La lavagna rimarrà accesa tutta la notte, come una piccola luce.
*In questo piccolo omaggio ci sono alcune cose del reale: Gaber, la sua canzone, il prof., Selene e la Tripletti (che nella realtà hanno nomi diversi), il mondo a pezzi, la domanda su come sta la democrazia e la piccola luce
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