Israele a rischio di una irrimediabile frattura civile
Attacco laico contro una cerimonia religiosa all’aperto, organizzata senza rispettare la norma che vieta la separazione di uomini e donne negli spazi pubblici
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Attacco laico contro una cerimonia religiosa all’aperto, organizzata senza rispettare la norma che vieta la separazione di uomini e donne negli spazi pubblici
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Attacco laico contro una cerimonia religiosa all’aperto, organizzata senza rispettare la norma che vieta la separazione di uomini e donne negli spazi pubblici
Gridando allo scandalo i manifestanti laici hanno fatto irruzione tra i fedeli seminando scompiglio e costringendoli a ritirarsi all’interno delle mura di una sinagoga. All’osservazione che si tratta di un evento che si ripete ogni anno, e che durante la pandemia la maggior parte delle congregazioni ha officiato regolarmente i rituali all’esterno, i manifestanti hanno additato la separazione di uomini e donne nello spazio pubblico, in violazione alla proibizione della segregazione di genere, come l’ennesima manovra da parte della destra religiosa del ministro Ben Gvir e dei suoi, volta alla graduale cancellazione dell’identità “laica” di Israele.
Per quanto sia evidente che il governo in carica sfrutti ogni occasione per promuovere l’osservanza delle norme religiose ebraiche, la controparte risponde alla minaccia identitaria intraprendendo una crociata senza precedenti a carico degli ebrei ultraortodossi e dei sionisti religiosi attraverso demonizzazioni a mezzo stampa, violenze fisiche e verbali e generalizzazioni che difficilmente si sposano con quella “democrazia” che loro stessi vanno reclamando e sbandierando nelle piazze ogni sabato sera da trentotto settimane a questa parte.
In particolare, il discutibile episodio di Rosh Yehudì ha creato una spaccatura anche all’interno degli stessi manifestanti, dal momento che molti non hanno condiviso l’iniziativa e le dichiarazioni dei leader che ne sono seguite. Persino in una città laica come Tel Aviv il Kippur rimane pur sempre un simbolo dalla forte valenza identitaria, soprattutto per chi è cresciuto nella diaspora, ma anche per molti israeliani che sentono il bisogno di recarsi nelle sinagoghe per ricevere almeno una volta l’anno la benedizione dei sacerdoti e sentire l’emozionante suono dello shofàr, il corno di montone che celebra la fine del digiuno e l’ingresso nel nuovo anno, rinnovati e liberi dal peso delle azioni commesse nel precedente. Si tratta di tradizioni condivise dall’intera collettività ebraica, a prescindere dall’osservanza personale dei precetti. E comunque, bando agli stereotipi, perché i matronei (gli spazi riservati alle donne nelle sinagoghe di rito ortodosso) sono da sempre anche meravigliosi spazi di complicità, autodeterminazione ed empowerment femminile.
Se dunque sarebbe auspicabile che le tribù ebraiche riscoprissero i loro punti di coesione e smettessero di farsi la guerra le une con le altre, la violenza dei toni non fa ben sperare almeno nel breve periodo, sempre che non arrivi una terza parte “levinassiana” (l’andare oltre l’orizzonte dell’essere) a farle ragionare.
Nel suo meraviglioso romanzo storico “Viaggio alla fine del millennio” lo scrittore Abraham B. Yehoshua affida al personaggio di Abu Lutfi, il silenzioso socio musulmano di Ben Attar, il ruolo di terzo equanime, giudice imparziale della spinosa diatriba tra ebrei sefarditi e ashkenaziti divisi sul tema della bigamia. Nell’attuale arena israeliana i palestinesi, che pure sono i primi a far le spese del dramma che si va consumando, siedono in disparte. Eppure a ben vedere potrebbe essere proprio la loro presenza a fungere da bussola alla società ebraica per navigare fuori dalla crisi e dirigersi finalmente verso una democrazia egualitaria e inclusiva, nel rispetto delle differenze e dei diritti di ciascun gruppo. In un simile scenario ognuno potrà scegliere come pregare, mangiare e vestirsi, senza bisogno di prevaricare su basi etniche, religiose, ideologiche e militari.
Viene allora da chiedersi se le origini di quella che sta assumendo lentamente i contorni di una guerra civile non siano da ricercarsi proprio nell’ostinazione e nella fedeltà al famigerato binomio di “ebraico-democratico” all’interno del quale Israele cerca maldestramente di autodefinirsi sin dalla propria costituzione come Stato. Se infatti da una parte tali connotazioni costituiscono il fondamento del progetto sionista e del contratto sociale del Paese, è ormai altrettando evidente che esse sono probabilmente incompatibili e, come tali, responsabili di aver generato l’occupazione a carico del popolo palestinese, sempre più condita da insidiose fantasie di pulizia etnica.
Una riflessione analoga meriterebbero anche le componenti identitarie ebraiche di “religione-nazione”, nonché un certo abuso del termine messianico operato dalla stampa in riferimento ai moventi del governo attuale. Non è infatti possibile ignorare quanto la tradizione biblica di matrice cristiana e un certo tipo di messianesimo abbiano improntato il sionismo ai suoi albori nell’Europa dei nazionalismi. E forse proprio l’utilizzo di categorie di matrice europea, come quelle di laici e religiosi, liberali e integralisti, si rivela improprio per approcciare la complessa crisi che investe la società israeliana, salvo incorrere in rischiose dicotomie orientalistiche che mal si adattano alla questione ebraica e alla giovane dinamica binazionale.
Del resto l’Europa è da sempre ambigua nei confronti dei “semiti” e persegue comunque i propri interessi. Da qui lo storico accordo tra Israele e Germania sugli armamenti suggellato nei giorni scorsi, proprio mentre Netanyahu cercava di salvarsi la poltrona sventolando alla platea quasi vuota che l’ha accolto alle Nazioni Unite un imminente accordo di pace con l’Arabia Saudita: intesa che potrebbe ancora una volta distogliere l’attenzione internazionale dalla volgare violenza nazionalista e razzista del suo governo.
Nell’immagine: la manifestazione in piazza Dizengoff a Tel Aviv
Perché il neoliberalismo non è solo antisociale ed ecocida, ma è anche programmaticamente antidemocratico