Masochismo, tafazzismo e insulso “polling game”
A sinistra si litiga, ci si denuncia, ci si distingue, con il risultato di lasciar campo libero alla coesione dei tanti No della destra
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A sinistra si litiga, ci si denuncia, ci si distingue, con il risultato di lasciar campo libero alla coesione dei tanti No della destra
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A sinistra si litiga, ci si denuncia, ci si distingue, con il risultato di lasciar campo libero alla coesione dei tanti No della destra
Nel primo caso ride (e trionferà) la destra. E si capisce come giornali di destra ospitino felicemente scritti polemici della sinistra (ma lo ha fatto anche Naufraghi/e, riprendendone uno, con la giustificazione di offrire uno spaccato della realtà). Che si fatica a capire cosa questa sinistra veramente pensi perché appare confusa, divisa o pericolosa e inaffidabile. Inaffidabile non tanto rispetto ad altri, ma perché impelagata dentro sé stessa. Quindi, sia presa, com’è, frammentata, nonostante la destra che avanza e trionfa, sia presa con velleità di possibili intese ma soffocata entro la contesa aritmetica di seggi in parlamento.
È ciò che qualcuno ha già definito il “tafazzismo” della sinistra: la propensione a volersi del male, accusandosene a vicenda, e provandone quasi piacere. Che è qualcosa di meglio o di peggio del masochismo (che è tendenza a compiacersi delle proprie sventure). Oppure anche “benaltrismo” (fratello stretto del pragmatismo): la propensione per la quale si sostiene, quando ci si trova con le mani nella melma di un problema concreto (e quanti ne sono capitati, basterebbe limitarsi a Lugano!), che l’autentica priorità sta sempre da un’altra parte, giustificando in tal modo o l’insipienza o l’opportunismo elettorale.
Nel secondo caso c’è una sorta di impotenza appresa o inculcata dal sistema partitico; è l’atteggiamento rinunciatario di chi continua a crederci ma non ha modo di altrimenti risolversi. Anche se ne soffre maledettamente, perché gli appare sempre più chiaro che così si smette di agire, ci si rassegna, perfino quando i cambiamenti sono a portata di mano, imposti dalla realtà o dall’estrema contraddizione dei fatti, prima ancora che dal discernimento politico.
Nel terzo caso c’è un che di assurdo o paradossale: tocca leggere o indagare in una diatriba all’interno della sinistra per tentare di capire, tra accuse reciproche, con qualche forma e niente sostanza, che cosa si pensi effettivamente della politica estera, della neutralità, dell’Europa, della Nato, della pace, della solidarietà, del lavoro, del problema del clima o che cosa significhi di fatto una cosiddetta scelta di campo eco-socialista-internazionalista. Non è più questione di porgere l’altra guancia o di essere masochisti. È altra questione: sia il vostro linguaggio sì sì o no no.
E (purtroppo) è il linguaggio dell’Udc, anche se impostato tutto sul gioco facile e infingardo, sugli umori irresponsabilizzanti e egoisticamente accattivanti, sul rifiuto che fa coesione: no all’Europa e annessi, anche se ci siamo dentro fino al collo e solo così ci facciamo i nostri affari; no all’immigrazione, anche se non se ne può fare a meno, perché crollerebbero molti pilastri non solo economici e avremmo gli ospedali non privi di malati ma di curanti; no all’ecologia che crea obblighi e assoluta precedenza alla crescita economica, anche se è la più distruttiva scelta umana.
È vero, a dire e sostenere il contrario di quel decalogo, dicono i sondaggi, oggi si è perdenti; ma forse, anche se è difficile pensarci e ci vuole coraggio e costanza, ancora più dei seggi conta la responsabilità di fronte alla storia, mai dimenticando le lezioni del passato e neppure che la politica si può fare e va fatta costantemente anche fuori dal parlamento.
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