Israele-Hamas, perché quello dell’Aia è un verdetto salomonico
Mentre ciascuna delle due parti in causa riceve e subisce qualcosa dalla sentenza, gli Stati Uniti ricevono tutto quello che volevano
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Mentre ciascuna delle due parti in causa riceve e subisce qualcosa dalla sentenza, gli Stati Uniti ricevono tutto quello che volevano
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Mentre ciascuna delle due parti in causa riceve e subisce qualcosa dalla sentenza, gli Stati Uniti ricevono tutto quello che volevano
Dal tribunale dell’Onu arriva un verdetto salomonico sulla guerra di Gaza. La Corte Internazionale dell’Aia ordina a Israele di prendere misure per “evitare un genocidio”, limitare i danni ai civili palestinesi e aumentare gli aiuti umanitari, ma (diversamente da quanto richiesto dal presidente francese Macron e da altri leader europei) non ordina al governo di Gerusalemme un cessate il fuoco, non chiede allo Stato ebraico di interrompere le operazioni militari nella Striscia e richiama Hamas all’obbligo di rilasciare gli ostaggi.
Si tratta di una sentenza ad interim: quella definitiva sull’accusa di genocidio rivolta a Israele dal Sudafrica sarà emessa soltanto in seguito, probabilmente fra qualche anno. Ma il giudizio finale sarà verosimilmente influenzato dal comportamento dei due belligeranti dopo questa valutazione provvisoria, tanto è vero che i giudici intimano al governo israeliano di inviare loro un rapporto, entro un mese, sulle decisioni che avrà preso per ottemperare alle deliberazioni emesse ora della Corte.
Il verdetto dell’Aia ha intanto un immediato significato politico, in grado di avere conseguenze concrete sul campo di battaglia. In ambito militare, innanzi tutto, incoraggiando implicitamente l’accordo che William Burns, capo della Cia, l’agenzia di spionaggio americana, ed eminenza grigia della Casa Bianca, sta cercando di raggiungere nella sua nuova missione in Europa e Medio Oriente: il rilascio di tutti i rimanenti 140 ostaggi israeliani in cambio di una tregua di sessanta giorni a Gaza e della liberazione di un numero imprecisato di detenuti palestinesi.
Il potenziale primo atto per il rilancio del grande piano regionale sostenuto da Washington per arrivare da un lato alla pace fra Israele e Arabia Saudita (e per estensione con l’intero mondo islamico sunnita), dall’altro alla ripartenza dei negoziati per creare uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza.
È inoltre possibile che la decisione del tribunale dell’Onu produca conseguenze interne in Israele, influendo sulle crescenti tensioni nel governo di Gerusalemme e dunque sul futuro di Benjamin Netanyahu.
Il primo ministro potrebbe uscirne indebolito o rafforzato a seconda di come la sentenza verrà accolta dall’opinione pubblica nazionale: come il segno che Israele ha esagerato a Gaza, sbagliando tattica nella sua risposta all’aggressione di Hamas del 7 ottobre scorso; oppure come la conferma che il resto del mondo condanna sempre il diritto all’autodifesa dello Stato ebraico, a cui non resta che difendersi da solo, senza ascoltare neppure gli Stati Uniti, il suo migliore alleato.
C’era il rischio che la sentenza dell’Aia dividesse il mondo in due, da una parte i giudici degli Stati pro-Israele, guidati da Usa e Germania, dall’altra quelli anti-Occidente, guidati da Russia e Cina.
Sui punti all’esame della Corte, l’equilibrato verdetto ha invece ottenuto una quasi unanimità, 16 a 1, 15 a 2, dietro la quale sembra di intravedere la mediazione dell’America: non a caso, mentre ciascuna delle due parti in causa, Israele e palestinesi, riceve e subisce qualcosa dalla sentenza, gli Stati Uniti ricevono tutto quello che volevano.
Ovvero, non un’accusa esplicita di genocidio a Israele, ma l’ammonimento a cambiare strategia se vuole evitarla; non l’ordine di fermare la guerra contro Hamas, ma la richiesta di limitare i danni ai civili e aumentare l’assistenza umanitaria.
E il motivo per cui Stati Uniti e Israele non vogliono la fine delle ostilità è che, se finissero adesso, vincerebbe Sinwar, il cervello del pogrom del 7 ottobre: vincerebbe Hamas, esito che per la verità anche il ministro degli Esteri della Ue Borrell aveva considerato inaccettabile.
È il verdetto, insomma, di cui Joe Biden aveva bisogno non soltanto nella sua partita con Netanyahu (d’accordo o in disaccordo con lui, nel loro ultimo colloquio telefonico dei giorni scorsi, secondo versioni contrapposte fornite da Washington e da Gerusalemme), ma pure in chiave elettorale: perché per sperare di battere Trump alle presidenziali il presidente deve mettere fine al più presto alle «strazianti condizioni» in cui versano i civili di Gaza, come le ha definite Joan Donoghue, la presidente (americana) della giuria dell’Onu.
Se c’è davvero lo zampino della Casa Bianca dietro il giudizio dell’Aia, re Salomone non avrebbe potuto fare di meglio.
Nell’immagine: Le delegazioni di Israele e Sud Africa alla Corte dell’Aia
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