Si può negoziare con Teheran mentre i manifestanti vengono uccisi?
Quel che vale nei rapporti con la Russia di Putin dovrebbe estendersi anche ai rapporti con il governo iraniano. O no?
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Quel che vale nei rapporti con la Russia di Putin dovrebbe estendersi anche ai rapporti con il governo iraniano. O no?
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Quel che vale nei rapporti con la Russia di Putin dovrebbe estendersi anche ai rapporti con il governo iraniano. O no?
La domanda vale per le guerre come per le crisi interne: è giusto parlare con i leader che commettono crimini di guerra o reprimono nel sangue? La questione è stata affrontata approfonditamente a proposito di Vladimir Putin dopo l’invasione dell’Ucraina, e oggi si pone con estrema urgenza rispetto all’Iran.
Il 20 dicembre il capo delle diplomazia dell’Unione europea Josep Borrell ha incontrato il ministro degli esteri iraniano Hossein Amirabdollahian. Sul suo profilo Twitter, Borrell ha parlato di un “incontro necessario”.
Il ministro iraniano si trovava ad Amman per partecipare a un vertice regionale co-organizzato dalla Francia, con la partecipazione di Emmanuel Macron. Catherine Colonna, ministra degli esteri francese, ha confermato di aver “parlato brevemente” con il suo omologo iraniano per invitarlo a rispettare i “diritti civili e politici” nel suo paese e a liberare i cittadini francesi ancora imprigionati.
Viene da chiedersi se questo dialogo, per quanto limitato, sia davvero utile e legittimo in un momento in cui in Iran la repressione ha già provocato più di cinquecento morti, tra cui due manifestanti condannati a morte e uccisi (altri dieci attendono di subire la stessa sorte).
Quali sono gli argomenti in favore del dialogo? La risposta diplomatica classica è che bisogna parlare con tutti se si vogliono risolvere i problemi. Ma non esistono forse situazioni in cui la discussione rischia di prolungare l’illusione di passi in avanti, quando invece si è all’impasse?
Una dichiarazione di Joe Biden, ripresa all’inizio di novembre durante la campagna per le elezioni di metà mandato ma circolata soltanto il 20 dicembre, illustra alla perfezione questo dilemma. Una donna irano-americana ha implorato Biden di smettere di negoziare un accordo sul nucleare con Teheran. “L’accordo e morto, ma non lo annunceremo”, ha risposto Biden [nell’immagine].
È la prima volta che il presidente statunitense ammette che l’intesa, raggiunta nel 2015 da Barack Obama e sabotata nel 2018 da Donald Trump, è ormai “morta”. Biden aveva fatto del rilancio dell’accordo uno degli obiettivi della sua diplomazia. Da mesi sono in corso a Vienna intensi negoziati.
Le conseguenze di questa dichiarazione sono molteplici: prima di tutto le parole di Biden smentiscono Borrell, che il 20 dicembre ha parlato della necessità di “tenere aperte le comunicazioni e ristabilire l’accordo sulla base della trattativa di Vienna”. Perché mantenere un’illusione che permette all’Iran di guadagnare tempo mentre le centrifughe del programma nucleare operano a pieno regime?
La seconda conseguenza è che Biden riconosce implicitamente che non sarebbe possibile in nessun caso impedire all’Iran di costruire la bomba. Teheran si avvicina alla soglia decisiva, ma questo non significa che passerà immediatamente all’azione. Se lo facesse, d’altronde, è probabile che i paesi vicini reagirebbero con la forza.
Ma allora di cosa si può parlare oggi con l’Iran se l’accordo sul nucleare è “morto”, gli strumenti per far cessare la repressione sono quasi inesistenti e il paese continua a fornire armi alla Russia per distruggere l’Ucraina? Il tema diventa filosofico più che politico: la vertigine dell’assenza di dialogo fa paura.
Traduzione di Andrea Sparacino
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