Tu chiamala se vuoi… censura
Il “caso Patti Chiari”, con una puntata bloccata dal Tribunale di Ginevra, ripropone il tema dei provvedimenti “cautelari” nei confronti del lavoro giornalistico
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Il “caso Patti Chiari”, con una puntata bloccata dal Tribunale di Ginevra, ripropone il tema dei provvedimenti “cautelari” nei confronti del lavoro giornalistico
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Il “caso Patti Chiari”, con una puntata bloccata dal Tribunale di Ginevra, ripropone il tema dei provvedimenti “cautelari” nei confronti del lavoro giornalistico
Cala la qualità, cala l’indipendenza, aumentano le pressioni: la libertà di stampa, dunque il diritto all’informazione, sono minacciati in Svizzera. A dirlo non siamo noi, ma gli studi e le classifiche internazionali in materia, che vedono il nostro Paese scivolare lentamente ma inesorabilmente dalle posizioni di testa verso altre certamente non indecorose ma comunque decisamente più basse. La stampa e l’informazione, quella che tutti giurano e spergiurano di voler salvaguardare, quella che alcuni addirittura affermano non essere mai stata in miglior salute (basta prevedere, saper usare i nuovi strumenti e adattarsi, Supino dixit), se intesa nella sua accezione storica di “cane da guardia della democrazia” è in realtà un malato grave, forse in fase terminale. E la politica ci mette del suo. Il caso di “Patti Chiari”, con la trasmissione RSI sospesa all’ultimo minuto per la decisione di un giudice, è sintomatico del nuovo corso che si intende dare all’informazione nel nostro Paese, che dovrà essere se mai possibile ancor più anestetizzata e sotto controllo.
Sia ben chiaro, non abbiamo visto la trasmissione incriminata e crediamo fermamente che il giudice abbia deciso con coscienza e, soprattutto, nel rispetto assoluto delle norme vigenti; è la legge, appunto, ad essere profondamente sbagliata, ché instaura “de facto” una censura preventiva a vantaggio soprattutto delle persone facoltose e dei grandi gruppi economici e di interesse (le persone comuni di solito non hanno né gravi scheletri nell’armadio né tempo e soldi per intentare lunghe e costose azioni legali) e di conseguenza impedisce ai cittadini di formarsi liberamente e scientemente la loro opinione sui fatti. Manco fossero dei bambini da tenere al riparo da chissà che.
È il famigerato articolo 266 (“Misure nei confronti dei mass media”) del Codice di diritto processuale civile, che già oggi permette ai giudici di ordinare un provvedimento cautelare – di fatto una censura preventiva – nel caso un articolo o una trasmissione causino a qualcuno un “pregiudizio particolarmente grave”. Impedendone appunto l’uscita.
E domani sarà ancora peggio. In effetti se in numerosi altri Paesi, in particolare negli Stati Uniti, sono in vigore norme tese a limitare gli effetti negativi di queste azioni bavaglio, e se a fine aprile 2022 la Commissione europea ha proposto a tale riguardo una nuova direttiva che consente ai giudici di rigettare rapidamente le azioni legali avviate nei confronti dei giornalisti, stabilendo nel contempo diverse garanzie procedurali e rimedi come il risarcimento dei danni e sanzioni dissuasive contro l’avvio di azioni legali abusive e manifestamente infondate, in Svizzera le Camere federali lo scorso 17 marzo hanno approvato in via definitiva una revisione che va ostinatamente in direzione contraria, trasformando il “pregiudizio particolarmente grave” in “grave pregiudizio”.
Una parola in meno, una minima differenza per un effetto con ogni probabilità dirompente. Se già oggi infatti un’azienda può invocare un pregiudizio particolarmente grave per una trasmissione che tratta di sostanza nocive nei pesci e dunque bloccarla, si spera solo momentaneamente (e al pregiudizio particolarmente grave per i consumatori, ossia per tutti noi, non ci pensiamo?), non osiamo neppure immaginare cosa accadrà quando la revisione entrerà in vigore, e i giudici avranno le mani più libere. O meno legate che dir si voglia.
Durante i dibattiti parlamentari UDC e Lega avrebbero voluto addirittura andare più lontano di quanto già incautamente deciso, PLR e PPD hanno giurato e spergiurato che mai e poi mai si sarebbe potuto parlare di censura, men che meno preventiva. Probabilmente avevano ragione: per riuscire a descrivere quello che succederà – aumento del numero delle cause, dunque dei costi a carico delle testate, giornalisti messi sempre più sotto pressione sia dall’esterno che dagli stessi editori con evidente effetto dissuasivo, autocastrante e demotivante, solo per citare le prime cose che ci vengono in mente – dovremo coniare una nuova parola, un neologismo che tuttavia al fondo avrà lo stesso amaro e tristissimo sapore di quella vecchia. Perché censura era, censura è e censura ancor peggiore sarà.
P.S: visto che siamo sotto elezioni federali, almeno i professionisti dell’informazione prendano atto che a favore di un maggiore intervento censorio hanno votato tutti i deputati UDC e Lega, che, come detto, avrebbe voluto addirittura andare oltre, e la stragrande maggioranza di PLR e PPD (tra le eccezioni purtroppo non si conta alcun deputato ticinese); contro, tutti i parlamentari PS e Verdi. Divisi praticamente a metà i Verdi liberali.
Nell’immagine: un fotogramma dalla promo del servizio di Patti chiari
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