Jovanotti – Noi che siamo stati a Genova
Venti anni fa il cantante attraversò la città sotto assedio per consegnare ai 'grandi' una petizione per la cancellazione del debito dei paesi più poveri
Filtra per rubrica
Filtra per autore/trice
Venti anni fa il cantante attraversò la città sotto assedio per consegnare ai 'grandi' una petizione per la cancellazione del debito dei paesi più poveri
• – Redazione
La ricostruzione di quella tragica giornata nelle testimonianze della madre, di amici e di chi ha documentato il dramma
• – Riccardo Fanciola
Riuscì ad assistere decine di giovani brutalizzati. La causa: quella che in un processo un agente definì “macelleria messicana”
• – Redazione
Il racconto di un testimone scampato per caso al massacro della scuola Diaz
• – Riccardo Bagnato
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
Io grido “Patria y Vida” e amo il mio paese
• – Redazione
Esistono soluzioni praticabili per un maggiore benessere con minori consumi; ma è una scelta ideologica
• – Redazione
La violazione dei diritti umani nel Tigrai si aggiunge alla fame e all'insicurezza alimentare
• – Redazione
C'è un miracoloso ingrediente nel DNA della Svizzera
• – Silvano Toppi
Piccola antologia del pensiero economico a cura del Prof. Sergio Rossi
• – Redazione
Venti anni fa il cantante attraversò la città sotto assedio per consegnare ai 'grandi' una petizione per la cancellazione del debito dei paesi più poveri
Il 20 luglio di vent’anni fa c’ero anche io a Genova. L’intenzione era di partecipare al grande corteo pacifico. Avevo convinto i miei musicisti e un paio di amici a seguirmi in questa cosa. Sul rimorchio di un camion avevamo allestito casse e strumenti per suonare durante la marcia annunciata per il pomeriggio. Ero lì per “jubilee 2000” (qualche mese prima c’era stata la mia cosa sul palco di Sanremo), sotto questa sigla si ritrovavano tutte le organizzazioni e le persone da tutto il mondo unite nel sostenere la cancellazione del debito dei paesi più poveri del pianeta. Un debito accumulato negli anni nei confronti dei paesi ex colonialisti e di grandi istituzioni finanziarie (Fondo monetario internazionale su tutte). Era una causa giusta, condivisa da milioni di persone compresi molti economisti illuminati e lungimiranti.
Siamo arrivati a Genova al mattino presto partendo da Milano. Entrando in città è stato subito chiaro che l’atmosfera non prometteva niente di buono. Io non ero mai stato in una zona di guerra ma quella lo era chiaramente, nonostante all’arrivo alla scuola di Boccadasse dove ci eravamo dati appuntamento ci fosse radunata un’umanità che più varia non se ne può vedere e nessuno dei presenti con l’aria minacciosa o sospetta. Il programma prevedeva la grande marcia pomeridiana con centinaia di migliaia di persone previste e alla sera avrei incontrato Bono e Bob Geldof in un hotel in centro dal quale avremmo forse potuto raggiungere alcuni rappresentanti autorevoli delle istituzioni per portare le richieste di “cancella il debito”. Non c’erano ancora i social network e le cause si sostenevano mettendoci di mezzo il corpo, andando di persona, se possibile e dove possibile, a farsi sentire, se possibile e dove possibile.
Verso mezzogiorno le prime notizie di tensioni e scontri in giro per la città, che era stata allestita dal governo di allora come una specie di scenografia della paura, e al porto una roccaforte che più che inespugnabile sembrava un invito al tentativo dei “soliti” di superare i limiti imposti. I segni erano chiari anche ad uno come me che non aveva praticamente mai partecipato ad una manifestazione “di protesta”: quella era la scenografia allestita per un teatro di guerriglia. Finestre chiuse, serrande abbassate, blindati ovunque.
Mi ricordo che nella scuola con noi c’era anche un gruppo di suore, e facevo fatica ad associare quelle giovani religiose che si preparavano a marciare con le barricate di container che erano state piazzate dappertutto in città.
Non c’erano ancora i social network, le informazioni arrivavano attraverso la radio, i tg e i telefoni mobili che non erano ancora “smart”. Poche immagini non “approvate” , i cellulari non spedivano ancora le foto e i filmati.
Nel primo pomeriggio quando stavamo per metterci in movimento verso la zona del corteo è arrivata la notizia non subito confermata ma così credibile da suonare immediatamente come un fatto avvenuto: c’era stato un ragazzo ucciso. Non c’era ancora il nome: Carlo Giuliani, che arrivò poco dopo, a segnare per sempre quella giornata come una delle più brutte del nostro dopoguerra. Un paese democratico si era trasformato in un luogo lugubre e squilibrato.
Decidemmo di non accendere gli strumenti e di non partecipare al corteo, non tanto per questioni di sicurezza, ma perché erano saltati tutti i presupposti per una risoluta ma pacifica richiesta di ascolto da parte di istituzioni che si dimostravano distanti e ciniche. Fu un pomeriggio drammatico, e poi quella notte di violenza ingiustificata nella scuola Diaz e poi nella caserma di Bolzaneto, una notte di vergogna istituzionale che ancora oggi fa venire i brividi a pensarci. Mentre a Bolzaneto accadeva quello che poi si è saputo l’allora presidente della Cammissiine Europea Romano Prodi riceveva Bono, Geldof e me insieme ad alcuni membri operativi di “jubilee 2000” nel suo ufficio sulla nave famigerata ancorata nel porto di Genova. Fuori l’inferno, oltre le barricate di container un silenzio che avevo sentito solo in Vaticano da bambino. La nave al suo interno era perfetta, lucidata e splendente, un luogo irreale, in quel momento. Fu un incontro breve e imbarazzato che doveva servire a formalizzare certe nostre richieste ma soprattutto a una “photo opportunity” a vantaggio delle parti, sopratutto quella (decisamente maggioritaria) dei manifestanti pacifici, molti dei quali avevo fatto migliaia di km per essere lì a Genova quel giorno. Era l’inizio del millennio, non c’era ancora stato l”11 settembre, c’era una certa dose di speranza di cambiamento nell’aria, o almeno io sentivo questo…
Mi pare di ricordare che poi arrivati lì decidemmo di non farla nemmeno la foto, non era davvero il caso, c’era stato un ragazzo morto e mentre eravamo lì con Prodi a parlare a Bolzaneto, poco distante, stava succedendo il finimondo, venivano massacrati di botte ragazzi inermi.
Ci ritrovammo a notte fonda nella stanza di Bono nell’hotel a seguire le notizie, poi ci salutammo, lui il giorno dopo aveva il concerto degli U2 allo stadio di Torino. Io tornai alla scuola di Boccadasse, dormii un paio d’ore nel mio sacco a pelo e prima dell’alba lasciai la città con il van che avevo affittato, mentre i miei musicisti lo avevano già fatto la sera prima.
La sera del 21 raggiunsi Bono al “delle Alpi”, a Torino, mi invitò nel camerino, ci sedemmo e poco prima di salire sul palco mi parlò dell’Irlanda degli scontri e del terrore, e gli raccontai degli anni di piombo quando ero bambino a Roma, rapide immagini che lui concluse con una frase che ricordo ancora: “political violence brings to death, you have to know it when you decide to use violence for a political purpose”.
Sono passati vent’anni, è un anniversario strano perché sembrano due secoli. Ammetto che ci fosse una certa ingenuità nel mio sguardo, che non è svanita del tutto, che anzi considero preziosa, una sorta di antidoto al cinismo e un allenamento a contestualizzare, sapendo che facendo si può sbagliare ma non facendo non si fa.
Attratte verso il centro della terra le cose cadono. Qualcuno che alza gli occhi e si ribella, le cose cambiano
Con due guerre in corso nel cuore di esplosive polveriere regionali, la crescita continua. Persino l’inflazione comincia a mostrare segnali di moderazione
L’Isis rischia di aprire un terzo fronte sullo scacchiere mondiale dopo quello in Ucraina e a Gaza