La Regina è morta e neanche il Commonwealth si sente troppo bene
Dopo la morte della regina il futuro del Regno Unito pare messo a dura prova dai paesi del Commonwealth - Di Cristian Ferretti
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Dopo la morte della regina il futuro del Regno Unito pare messo a dura prova dai paesi del Commonwealth - Di Cristian Ferretti
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Dopo la morte della regina il futuro del Regno Unito pare messo a dura prova dai paesi del Commonwealth - Di Cristian Ferretti
Si potrebbe riassumere con questa canonica formula il fiume di parole che ha inondato i media anglofoni ed in particolare britannici nei dieci giorni di lutto nazionale dalla morte ai funerali di Elisabetta II. All’impeccabile pomposità delle cerimonie d’addio e d’insediamento dei monarchi, la copertura mediatica ha fatto da pendant con un tono reverenziale e nostalgico verso la famiglia reale e l’istituzione che rappresenta.
Nulla è stato lasciato al caso: abbiamo infatti assistito alla messa in pratica di un’operazione di propaganda da manuale, per cui le varie redazioni britanniche si preparavano ormai da decenni. L’obiettivo era quello di creare un sentimento di unione tra i sudditi e far trasparire un’immagine della monarchia positiva e confortante in un regno in cui le crisi non hanno tregua – indipendentismo scozzese, Brexit, pandemia, guerra russo-ucraina, crisi di governo.
L’Operazione London Bridge, questo il nome in codice degli eventi organizzati dalla morte alle esequie della monarca, è stata una specie di enorme “gaslighting”, una manipolazione psicologica volta ad eludere, nel momento più delicato, ogni discussione critica riguardo al passato e al presente della corona inglese, così come tutte le tematiche che avrebbero potuto mettere in cattiva luce la famiglia reale sono state accuratamente evitate: dal razzismo da parte della stampa e presumibilmente di membri della famiglia reale verso Meghan Markle, ai rapporti col pedofilo Epstein del principe Andrea, dal finanziamento pubblico alla corona (Sovereign Ground) al potere dei reali di bloccare leggi che potrebbero intaccare le loro fortune personali (King’s Consent).
L’elefante nella stanza però, sono state le relazioni a doppio filo tra monarchia ed impero, e quindi con il colonialismo e lo schiavismo. Un’ombra su cui nessun grande media britannico ha voluto fare luce, nonostante la presenza di vari rappresentanti di ex-colonie ora facenti parte del Commonwealth. Fino ad oggi, infatti, nessun membro della famiglia reale parrebbe rammaricarsi del fatto che l’istituzione di cui fa parte si sia arricchita attraverso la schiavitù per due secoli.
La presenza della regina Elisabetta consentiva una certa omertà, nel nome della stabilità delle relazioni all’interno del Commonwealth. Oggi la direzione (formalmente non ereditaria) è passata al figlio Carlo, e molte di queste nazioni sollevano la questione della rivalutazione storica del colonialismo britannico, cominciando a parlare apertamente di un futuro repubblicano.
Con questo titolo Maya Jasanoff, storica dell’impero britannico presso l’università di Harvard, ha firmato un articolo sul New York Times che ha fatto molto discutere oltre oceano per la mancata riverenza con cui, invece, i media conservatori hanno presentato la figura della monarca. Secondo la ricercatrice, Elisabetta è stata fondamentale per traghettare il regno dall’impero alla costituzione del Commonwealth. Inizialmente concepito come un’organizzazione di colonie “bianche”, il Commonwealth “trova le sue origini in una concezione razzista e paternalistica del dominio britannico come forma di tutela”, per cui la presenza di Elisabetta a capo dell’organizzazioneDopo la morte della regina il futuro del Regno Unito pare messo a dura prova dai paesi del Commonwealth – Di Cristian Ferretti ha “fortemente difeso i valori tradizionali lungo decenni di insurrezioni violente. In questo modo, la regina ha contribuito ad oscurare la sanguinosa storia della decolonizzazione, le cui proporzioni ed eredità sono ancora da stabilire” scrive Jasanoff.
Ad oggi, il Commonwealth delle Nazioni è la seconda più grande organizzazione intergovernativa al mondo, di cui fanno parte 56 nazioni, in grande maggioranza ex-colonie britanniche. Inoltre, 15 di queste nazioni formano il cosiddetto reame del Commonwealth, ovvero paesi che riconoscono nel monarca britannico il proprio Capo di Stato. Tra questi ci sono l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada e diversi paesi del Pacifico e dei Caraibi: è in queste nazioni che il discorso della secessione e trasformazione in repubblica si farà presumibilmente sempre più impellente nei prossimi anni.
Nei settant’anni di regno di Elisabetta, 17 Paesi hanno deciso di lasciare la monarchia, l’ultimo dei quali sono le Barbados, divenute una repubblica parlamentare un anno fa. La scomparsa della regina sembra aver dato ad alcuni paesi uno stimolo per accelerare il processo di secessione dalla monarchia: è il caso che si riscontra nei Caraibi, dove la tematica è affrontata spesso sui media locali. Altre nazioni invece hanno deciso di aspettare, prima di invocare il parere del popolo tramite un referendum che rimane comunque in agenda.
In Australia, per esempio, dove la famiglia reale gode di un buon seguito, il neo premier Anthony Albanese ha appena creato un Ministero per la Repubblica. In un’intervista rilasciata dopo la scomparsa della regina, ha detto di non voler indire il referendum durante il suo primo mandato – che dura tre anni – e di volersi concentrare sui diritti degli aborigeni. Nel 1999, il paese aveva indetto un referendum per diventare una repubblica che fu rigettato. Oggi però la situazione è cambiata, per cui secondo alcuni sondaggi più della metà degli australiani sarebbe favorevole ad una secessione dalla monarchia.
La vicina Nuova Zelanda nel 2016 aveva sottoposto a referendum – con esito negativo – la possibilità di cambiare la propria bandiera proprio per togliere la Union Jack, simbolo del passato coloniale della nazione. La premier Ardern ha detto che una votazione per diventare una repubblica parlamentare non è una delle priorità del suo mandato, ma che in futuro il suo Paese potrebbe andare in quella direzione.
Trudeau, primo ministro canadese, ha scritto su Twitter che la regina era “al mondo una delle persone che più preferivo, mi mancherà molto” e ha subito dichiarato il 19 settembre giorno di festa nazionale per gli impiegati statali. Nonostante la fervente ammirazione del premier per la corona inglese e la sua monarca, secondo un recente sondaggio il 61% dei cittadini canadesi si è detto “indifferente” alla morte della regina. Nonostante il Canada sia uno dei paesi storicamente più legati alla corona, è presumibile un referendum una volta terminato il mandato dell’attuale premier.
Diversa, appunto, la situazione nei Caraibi. A differenza delle ex-colonie del nord America o dell’Oceania, dove le popolazioni indigene sono state sterminate, le popolazioni delle nazioni caraibiche trovano le proprie radici nella tratta degli schiavi che dall’Africa occidentale portava oltre l’oceano Atlantico. Qui il processo di decolonizzazione non è ancora stato completato: il non riconoscimento dei danni subiti da queste popolazioni nel corso dei secoli, prima come schiavi e poi come sudditi, ha dato a queste nazioni un motivo in più per andare verso un affrancamento dalla corona.
I sudditi caraibici hanno infatti cominciato a chiedere sempre più convintamente non solo il riconoscimento delle atrocità derivate dalla schiavitù, ma anche delle scuse ufficiali e dei risarcimenti, che, per inciso, sono stati accordati subito a tutti gli schiavisti in seguito all’abolizione della schiavitù agli inizi del diciannovesimo secolo. Più di cent’anni più tardi e dopo settant’anni di regno però, né Elisabetta né altri membri della famiglia reale hanno mai offerto ufficialmente delle scuse alle ex-colonie, né accordato risarcimenti agli abitanti caraibici odierni. Oltretutto, nel 2018 il cosiddetto scandalo Windrush, che ha visto almeno 83 persone per la maggior parte di origine caraibica, residenti nel Regno Unito da oltre mezzo secolo, essere detenute e deportate con la forza sotto il governo May, non ha migliorato i rapporti con i reami d’oltre oceano.
Il viaggio di William e Kate di questa primavera nei reami di Jamaica, Belize e Bahamas doveva quindi gettare acqua sul fuoco. Concepito come una commemorazione di monarca e monarchia per il Giubileo di Platino della regina, un altro degli obiettivi era quello di allontanare questi Paesi dall’idea di imitare le Barbados e diventare delle repubbliche. L’effetto sortito è stato esattamente il contrario: i reali hanno infatti dovuto evitare numerose proteste da parte dei caraibici, e per di più si sono fatti immortalare in anacronistiche immagini degne di un film d’archivio dell’impero: il principe e la principessa che fanno il cioccolato con i sudditi, ballano goffamente danze pseudo-tribali, salutano i bambini che stanno al di là di una grata.
Lo scandalo Windrush, il viaggio dei reali e la morte di Elisabetta hanno quindi agito da catalizzatori nel percorso verso la repubblica in diversi paesi dei Caraibi: il primo ministro di Antigua e Barbuda, subito dopo aver commemorato la regina, ha dichiarato che indirà un referendum per l’indipendenza durante i prossimi tre anni. Anche il presidente delle Bahamas ha dichiarato che presto ci sarà un referendum sulla monarchia nel suo paese. Nella Jamaica, inoltre, che quest’anno festeggia i 70 anni di indipendenza, un referendum sul nuovo re è previsto dalla costituzione, e il paese potrebbe essere il prossimo a diventare una repubblica parlamentare.
Il futuro del Commonwealth delle Nazioni e soprattutto del reame è oggi un’enorme incognita. La corona inglese, caposaldo del soft power britannico, deve affrontare divisioni in casa propria e sulla scena internazionale, per cui il fascino fiabesco evocato dalle ricorrenze legate alla corona potrebbe non solo non bastare, ma anzi affievolirsi a poco a poco. Senza un ridimensionamento della pomposità della famiglia reale inglese, anche alla luce dei recenti scandali, verso un modello più pacato come quello scandinavo, i funerali della regina potrebbero essere l’inizio della fine per la corona. Se re Carlo e il regno tutto non trovano modo di accordarsi per un nuovo contratto sociale, il vecchio motto “divide et impera” su cui i monarchi britannici hanno costruito l’impero più grande della storia potrebbe ritorcersi contro la casa reale facendo volgere al tramonto il regno che non conosce notti.
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