La politica fiscale alla prova delle votazioni popolari
Quando in Parlamento e in Governo, a Berna, si assecondano regolarmente le aspettative del grande capitale e delle multinazionali
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Quando in Parlamento e in Governo, a Berna, si assecondano regolarmente le aspettative del grande capitale e delle multinazionali
Lo stesso giorno, alla medesima consultazione dà seguito anche l’influente Associazione svizzera dei banchieri, la quale «si felicita espressamente per la direzione politica presa». Secondo Swissbanking «i mercati dei capitali e del credito e il mercato monetario in Svizzera sono ancora ostacolati, soprattutto a causa di barriere fiscali come l’imposta alla fonte e la tassa di bollo» Tre giorni dopo, l’Usam, l’organizzazione mantello delle Pmi svizzere, ribadisce il concetto: «L’imposta di bollo è una tassa che non serve più a nulla. Abolirla consentirebbe, soprattutto in questi tempi di paralisi economica, di rompere con dei meccanismi arcaici e dare nuova respiro alle attività finanziarie».
Qualche tempo dopo, i desiderata delle due lobby padronali vengono trasformati in legge. Manca poco a Natale, quando – nell’anno pandemico 2020 – Udc, Plr e Verdi liberali fanno passare in Consiglio nazionale l’abolizione parziale della tassa di bollo. Al Consiglio degli Stati, il blocco borghese si completa poi con l’appoggio dell’Alleanza del Centro. Ciò che porta al testo finale approvato nel giugno 2021.
Il mondo economico e i suoi valletti alle Camere non hanno però fatto i conti con sinistra e sindacati che hanno lanciato un referendum. La decisione è infatti un regalo alle grandi imprese che priverebbe di un quarto di miliardo all’anno la Confederazione. Il tutto nel bel mezzo di una crisi epocale che ha già portato sul lastrico migliaia di persone e che è costata alle casse federali quasi trenta miliardi di franchi. Questo, inoltre, in un contesto in cui i profitti delle grandi aziende e di chi è già ultraricco sono esplosi, mentre in Parlamento si continua a dire che non ci sono soldi per l’Avs.
Motivi, questi, che hanno dato una spinta al NO, che lo scorso mese di febbraio ha vinto con oltre il 62% dei voti. Solo Zugo, il Cantone delle multinazionali e del fisco leggero (oltre che di Thomas Aeschi, il deputato Udc che ha rilanciato il progetto in Parlamento) ha detto SÌ. «Bisogna riconoscere che è difficile spiegare gli oggetti fiscali al vasto pubblico»: questa è stata la reazione della direttrice di Economiesuisse, Monika Rühl. Un argomento che tende a dire che, in materia fiscale, il popolo non ci capisce nulla e quindi vota male.
In realtà, seppur apparentemente tecnico, l’oggetto in votazione a febbraio era semplice. I dati parlavano chiaro: sulle oltre 600mila imprese basate in Svizzera, nel 2020, soltanto 2.300 hanno dovuto pagare la tassa di bollo. Secondo cifre ufficiali, di queste imprese, il 2,2% (ossia qualche decina di grosse aziende) pagano più della metà delle entrate fiscali generate da questa tassa. Altro che Pmi, come voleva far credere la campagna.
Monika Rühl e colleghi non hanno forse capito che la sinistra può certo perdere le iniziative che lancia (alcune di poco, come quella sulle multinazionali responsabili) o certe riforme che sostiene in Parlamento (vedi legge CO₂ e aiuto ai media), ma che sul fronte fiscale può ancora fare blocco. Lo si è dimostrato ancora una volta lo scorso 25 di settembre con il NO – questa volta meno secco (52%) – alla modifica della legge federale sull’imposta preventiva. Anche in questo caso, nel dicembre 2021, gli stessi schieramenti politici avevano dato il via libera in Parlamento all’abolizione dell’imposta preventiva sulle obbligazioni svizzere. Un altro vecchio sogno degli ambienti economici, che avrebbe anch’esso comportato un’altra ingente perdita per le casse federali. Soldi degli evasori che non dichiarano correttamente al fisco i loro guadagni su alcuni titoli. L’imposta preventiva infatti era stata introdotta per prevenire la frode fiscale: con quella decisione parlamentare, insomma, non dichiarare alcuni redditi sarebbe stato ancora più interessante. Anche in questo caso, come era logico, da sinistra, si è lanciato il referendum che, ancora una volta, ha avuto successo.
La vittoria sul fronte fiscale della sinistra e dei sindacati di domenica scorsa (anche se, bisogna riconoscerlo, chiaramente annacquata dal Sì di misura ad Avs21) e quella del mese di febbraio s’inseriscono in una lista di successi che comprende la bocciatura della terza riforma sull’imposizione delle imprese (la Rie III, 2017) e delle detrazioni fiscali per i figli (2020). Tutti schiaffi in faccia a Ueli Maurer e alla sua politica fiscale dettata dal padronato.
Unica eccezione: l’accettazione della RFFA (riforma fiscale e finanziamento dell’AVS) nel 2019. Dopo il NO contro la Rie III, il Governo era riuscito a far passare questa nuova riforma fiscale soltanto attraverso un discutibile compromesso accettato dal Ps (ma non da tutta la sinistra) che legava gli sgravi fiscali con un finanziamento complementare dell’Avs (evidentemente insufficiente). Un compromesso tipicamente svizzero che dovrebbe oggi continuare a far riflettere sulla possibilità di fare passare i diktat fiscali delle varie Economiesuisse, Swissbanking e Usam come una lettera alla posta grazie alla maggioranza parlamentare.
Anche perché a Berna il dossier fiscale rimane caldo. I parlamentari devono infatti chinarsi sull’introduzione di un’aliquota fiscale minima del 15% per le grandi imprese, così come richiesto dall’OCSE. L’obiettivo è quello di ridurre la concorrenza fiscale e la Svizzera (e il suo mondo imprenditoriale) non ha scelta: deve adattarsi, altrimenti le grandi aziende svizzere potrebbero essere tassate in modo complementare all’estero. Ad essere toccati dalla misura saranno solo le grandi società la cui cifra d’affari supera i 750 milioni di euro, ma i dettagli devono ancora essere stabiliti soprattutto in merito alla ripartizione.
Il Consiglio federale propone un sistema che distribuisce l’imposta per il 75% ai Cantoni e per il 25% alla Confederazione. Così facendo, i Cantoni già ricchi e che ospitano le multinazionali saranno avvantaggiati favorendo nuovamente la concorrenza fiscale intercantonale (con più entrate i Cantoni più abbienti potranno promuovere nuovi sgravi). Ciò che non piace alla sinistra. Quello che è certo è che si andrà a votare perché verrà modificata la Costituzione.
La destra e le varie lobby padronali dovranno quindi fare attenzione: per evitare un nuovo NO alle urne non potranno imporre unilateralmente i propri desiderata a discapito degli interessi della popolazione e delle regioni periferiche. Gli ultimi voti in materia di fiscalità sono lì a dimostrarlo.
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