Di Zahra Khosroshahi, Valigia blu
La morte della 22enne curda iraniana Mahsa Zhina Amini, avvenuta il 16 settembre per mano della “polizia morale” della Repubblica, ha scatenato enormi proteste in tutto il paese. La brutale risposta del regime ha finora provocato la morte di oltre 400 manifestanti e l’arresto di più di 20 mila persone.
Amini è stata uccisa dalla polizia morale per non aver indossato correttamente l’hijab, secondo il rigido codice penale islamico. Per dimostrare la rabbia per la sua morte e per la continua oppressione, le donne iraniane si sono tolte il velo e lo hanno bruciato. Incapace di soffocare la voce forte e determinata del popolo iraniano, la Repubblica islamica è ricorsa ancora una volta alle sue tattiche abituali: violenza, blocco di Internet, arresti di massa e uccisioni.
In piedi, spalla a spalla, le donne iraniane cantano per la loro libertà. Immagini che sembrano senza precedenti, ma per chiunque abbia seguito la politica e la società iraniana nel corso degli anni ciò che stiamo vedendo nelle strade delle città del paese non è una sorpresa. Sono la reazione a più di quattro decenni di brutalità e violenza e il culmine di anni e anni di resistenza.
Lo slogan “Donne, vita, libertà”, adottato dal curdo, onora l’eredità di Amini e collega il movimento delle donne iraniane a un movimento collettivo e transnazionale. Anche le studentesse hanno partecipato. Hanno tolto le uniformi, esposto i capelli, mostrato il dito medio alla Repubblica islamica. Cantano per la loro libertà. A 20 giorni dall’inizio delle proteste, stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione femminista.
Eppure, la solidarietà femminista internazionale è stata tradizionalmente deludente, quando si tratta della lotta delle donne iraniane contro questa dittatura patriarcale. Ad esempio, molte rappresentanti dello Stato occidentale che hanno visitato la Repubblica islamica hanno rispettato il codice di abbigliamento femminile. Questo ha l’effetto indesiderato di normalizzare la sorveglianza del corpo delle donne.
Le immagini provenienti dalle strade delle città iraniane – donne forti, ribelli e coraggiose che fronteggiano i loro oppressori – non si adattano alla comune narrazione occidentale che vede le donne iraniane ultra-riservate e sottomesse. Più in generale, questo contrasta con le comuni rappresentazioni mediatiche e hollywoodiane delle donne mediorientali, che offrono stereotipi razziali e di genere invece di una rappresentazione complessa o diversificata.
L’hijab obbligatorio nella Repubblica islamica è un simbolo di sottomissione delle donne, uno strumento di oppressione. La disuguaglianza che vivono le donne iraniane va oltre il modo di vestire. Dalla custodia dei figli, alle leggi sul divorzio, all’autonomia corporea e persino al diritto di lasciare il paese, ogni loro azione è controllata da un regime spietato.
Ma non si tratta solo di questo. Fin dall’inizio della Repubblica islamica, nel 1979, le immagini hanno svolto un ruolo cruciale nel consolidare il regime e la sua propaganda. Imporre l’hijab a ogni singola ragazza e donna è stato un modo per la Repubblica islamica di portare avanti la propria ideologia usando il corpo delle donne, un modo per creare una visualizzazione di un presunto Stato islamico omogeneo.
Questi elementi visivi sono fondamentali per il funzionamento e il mantenimento del potere del regime. Soprattutto, è il modo in cui il regime mantiene la sua immagine e il suo marchio, all’interno dell’Iran, nella regione e nel mondo esterno.
Ciò significa che non solo l’hijab obbligatorio è uno strumento di oppressione, ma è anche un emblema che rappresenta la Repubblica islamica. Bruciarlo significa rifiutare il regime nella sua interezza. Le donne iraniane stanno usando i simboli stessi del regime per rifiutarne la legittimità e chiedere un cambiamento.
Una resistenza storica
Le espressioni di dissenso e gli atti di disobbedienza hanno assunto molte forme nel corso dei 43 anni della Repubblica islamica. Per anni le donne hanno dovuto negoziare con i rigidi confini imposti dallo Stato per sfidare i sistemi di potere.
Hanno tentato di esprimere la loro capacità di azione e il dissenso attraverso vari atti, come indossare rossetti brillanti o abiti colorati, esporre i capelli sotto l’hijab obbligatorio od osare ballare, il tutto nel tentativo di mantenere una certa autonomia corporea.
Ma le proteste contro l’hijab obbligatorio hanno radici che risalgono all’inizio della Rivoluzione islamica del 1979. Sebbene negli ultimi anni le donne iraniane si siano fatte sentire di più sia sui social media che nelle strade del paese, i loro atti di resistenza sono stati accolti con violenza e imprigionamento.
Oggi le donne iraniane dicono alla Repubblica islamica, agli uomini che le circondano e al mondo esterno che non intendono più negoziare. “Donne, vita, libertà”: queste sono le parole che riempiono le strade di ogni città dell’Iran. Una presa di posizione chiara, collettiva e forte contro la Repubblica islamica e tutto ciò che rappresenta.
Zahra Khosroshahi insegna film and television studies all’Università di Glasgow
Questo articolo è una traduzione dell’originale pubblicato in inglese su The Conversation con licenza Creative Commons.
Nell’immagine: studenti dell’università di Tehran danzano l'”Ey Irân”, che è stato l’inno nazionale nel breve periodo fra la caduta dello scià e l’avvento del khomeinismo