Le ‘non cose’ e il virtuale
In un rapporto con il reale che diventa sempre più mediato rischiamo di vivere senza sapere né dove né come
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In un rapporto con il reale che diventa sempre più mediato rischiamo di vivere senza sapere né dove né come
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In un rapporto con il reale che diventa sempre più mediato rischiamo di vivere senza sapere né dove né come
Il libro di Byung-Chul Han inizia richiamando L’isola dei senza memoria della scrittrice giapponese Yōko Ogawa, che narra di un’isola senza nome, dove le cose spariscono inspiegabilmente ma soprattutto, ed è ben più grave, irrimediabilmente. “Si tratta di cose aromatiche, fruscianti, splendenti, meravigliose: nastrini per i capelli, copricapi, profumi, campanelle, smeraldi, francobolli, persino rose e uccelli. Le persone non sanno più a che servono. Insieme ad esse spariscono anche i ricordi”. E sembra (è) la nostra realtà di oggi, dove troppe cose spariscono irrimediabilmente, compresa la memoria del passato, che a sua volta, aggiungiamo è ciò che ci permetterebbe di ragionare sul rapporto di causa-effetto, ad esempio sull’effetto crisi climatica causato da tre secoli di sfruttamento capitalistico di uomo e ambiente.
Nell’Isola dei senza memoria vi è un regime totalitario che “bandisce dalla società le cose e i ricordi facendo leva sulla polizia segreta, simile alla polizia del pensiero orwelliana – e chi si mette segretamente alla ricerca dei ricordi viene arrestato”, se non ucciso. “Anche oggi le cose scompaiono costantemente, senza che ce ne accorgiamo”, scrive Byung-Chul Han, ma per noi “è la nostra ebbrezza comunicativa e informativa a farle sparire”. Cioè viviamo producendo informazioni che vengono prodotte e fatte consumare rapidamente e in modo compulsivo, noi dopati dai social e dai social media e dalla fascinazione infantile per i giocattoli tecnologici. “Le informazioni” – continua Byung-Chul Han – “quindi le non-cose, si piazzano davanti alle cose facendole sbiadire”. Sì, perché il sistema vive di istantaneità e soprattutto – aggiungiamo – non vuole uomini consapevoli dei processi in cui sono integrati, ma li vuole felicemente alienati. Quindi il tecno-capitalismo ha tutto l’interesse a farci dimenticare il passato (e insieme a toglierci la libertà di immaginare il futuro) e quindi i rapporti di causa-effetto, facendoci vivere in un eterno presente di cose-non-cose.
Ma torniamo a Byung-Chul Han: “La digitalizzazione derealizza, disincarna il mondo”. E la polizia del ricordo di Yōko Ogawa “viene sostituita dai media digitali, che svolgono il proprio lavoro senza alcun ricorso alla violenza, né grande dispendio di forze”. Possedendo un grande vantaggio – che a sua volta è un grande potere di manipolazione – cioè la sua non monotonia, cioè l’offerta incessante di qualcosa di nuovo o che deve sembrare nuovo. Nel mondo digitale infatti “le informazioni simulano eventi. Si fondano sul brivido della sorpresa. Ma questo brivido non dura a lungo: ben presto emerge il bisogno di nuovi stimoli”. Ed è la stessa tecnica psicologica, lo ricordiamo, che producono per noi marketing e pubblicità, cioè sempre nuovi stimoli per far rinascere incessantemente in noi il bisogno (un falso bisogno, diceva Herbert Marcuse), di consumare. E infatti, per Byung-Chul Han: “Noi ci abituiamo a percepire la realtà in termini di stimoli e sorprese. E in veste di cacciatori d’informazioni diventiamo ciechi nei confronti delle cose silenziose, poco appariscenti, vale a dire abituali, secondarie o ordinarie cui invece manca qualsiasi capacità di stimolare – ma che sanno ancorarci all’essere”.
E ancora: “Non sono gli oggetti, bensì le informazioni a predisporre il mondo in cui viviamo. Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il cloud. Il mondo si fa sempre più inafferrabile, nuvoloso, spettrale. Niente è più attendibile e vincolante, nulla offre più appigli”. E poi: “Le nostre ossessioni non sono più indirizzate alle cose [per noi invece lo sono ancora, sempre di più], bensì alle informazioni e ai dati” – che per noi sono comunque cose/merci, a valore di scambio crescente per il capitalismo entrato nella sua forma – la più cinica e sfruttatrice mai realizzatasi – della sorveglianza di massa]. “Ci inebriamo con la comunicazione” – scrive Byung-Chul Han – e “le energie libidiche abbandonano le cose e si lanciano sulle non-cose. La conseguenza di ciò si chiama infomania. Ormai siamo tutti infomani”. Feticisti delle informazioni. Dipendenti dalle informazioni. Di più: “L’informatizzazione del mondo trasforma le cose in infomi, vale a dire agenti che elaborano informazioni” – ma infomi sono anche gli umani ridotti a cose che producono informazioni e dati su se stessi: “L’essere umano è un Inforg che funziona comunicando e scambiando informazioni”.
Di più: “guidato dagli algoritmi, l’essere umano perde sempre più il proprio potere di agire, la propria autonomia. Si trova dinanzi [noi preferiamo dire: immerso, sussunto] a un mondo che sfugge alla sua comprensione”. E “da un certo momento in avanti, le informazioni non informano più, bensì deformano”. Oggi – continua Byung-Chul Han – “prendiamo nota di tutto senza più imparare a conoscerlo. Viaggiamo ovunque senza fare vera esperienza. Salviamo quantità immani di dati senza far risuonare i ricordi. Accumuliamo amici e follower senza mai incontrare l’Altro. Così le informazioni generano un modo di vivere privo di tenuta e di durata”. Che però è molto funzionale, aggiungiamo, al funzionamento del tecno-capitalismo, per il quale ogni durata è un tempo morto (in termini di mancata produzione/estrazione di profitto privato), che deve appunto essere ridotto possibilmente a zero; e per questo ci impone (illudendoci che sia una virtù) di essere flessibili e di adattarci alle sue esigenze di accumulazione crescente, processo che appunto riesce alla perfezione se il sistema ci priva di consapevolezza, di memoria così come di un guardare lento e creativo. Di più: “quando un’informazione scaccia l’altra, ecco che non abbiamo più tempo per la verità”.
E chiudiamo richiamando ancora alcuni spunti del libro, che di fatto riprende molti argomenti dei libri precedenti e della più generale critica del digitale/digitalizzazione, ma lasciandoci anche ulteriori perplessità, oltre a quelle viste sopra. Sul Big Data: che “suggerisce un sapere assoluto, dove ogni cosa diventa calcolabile, prevedibile e influenzabile. Ma in realtà abbiamo a che fare con una forma davvero primitiva del sapere, mettendo a nudo solo le correlazioni”, ma “secondo la logica di Hegel la correlazione rappresenta la forma in realtà più bassa del sapere”. E poi sul capitalismo che “distrugge sistematicamente i legami. Oggi anche le cose del cuore sono rare”; e inoltre “il capitalismo non ama il silenzio. Il capitalismo informativo ingenera la coazione a comunicare”; e ancora: “gli usignoli odierni non cinguettano più per scacciare gli estranei, anzi twittano per attirarli”, così cancellando appunto il silenzio che – solo – produce invece attenzione.
E l’ultima citazione, che condividiamo totalmente: “Noi sfruttiamo la terra in maniera così brutale proprio perché consideriamo morta la materia, e degradiamo la terra a una pura gamma di risorse. Da sola, la sostenibilità non basta per rivedere radicalmente il nostro atteggiamento nei confronti della terra. È quindi necessaria una concezione diversissima della terra e della materia”.
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