“Sarà il governo più a destra dai tempi di Mussolini”, titola la Cnn. Verità storica inoppugnabile, ed esplicito pro-memoria sulle radici di chi avrà in mano il timone dell’Italia. Nel segno di ‘Dio patria e famiglia’ di fascistica memoria, amputato del quarto sostantivo, “umanità”, che ci aggiungeva invece Mazzini, e fa una bella differenza.
Comunque, ampiamente pronosticata, come fatalità ormai inevitabile, la ‘marea nera’ investe l’Italia. Con una Giorgia Meloni da record. Prima donna destinata alla guida del governo; prima post-fascista ad entrare a Palazzo Chigi; prima sovranista trionfante nei paesi del Vecchio Continente; prima con distacco enorme sui suoi partner di coalizione (insieme, Salvini e Berlusconi fanno molto meno della futura first lady); prima nel moltiplicare per sei la sua forza elettorale (dal 4,3 per cento a ben il 25 per cento; e prima nella conquista della maggioranza nel parlamento rinnovato e numericamente fortemente ridotto.
Un botto. E una brutta botta per chi teme – non senza ragioni, soprattutto sul fronte dei diritti civili – che la già fragile democrazia italiana subisca un fatale ‘stress test’, come pronostica il New York Times. Wait and see, chiede invece il Financial Times.
Si interroga anche l’Europa: se questa radicale svolta a destra possa fornire nuovo carburante agli schieramenti anti-comunitari, e se uno dei paesi fondatori di quella che oggi è l’Unione Europea rappresenterà un ulteriore minaccioso problema per la già sfilacciata alleanza. Addirittura, entrando improvvidamente a gamba tesa, la presidente della Commissione von der Leyen si è sentita in obbligo di ricordare alla vigilia del voto che l’Europa ha i mezzi per sanzionare chi sgarra dai parametri democratici minimi. La preoccupazione non è tuttavia fuori luogo, anzi. Meloni sostenitrice e sodale dell’ungherese ‘illiberale’ Orban; ancor più ‘affezionata’ all’esperienza regressiva polacca; che augura un fulgido futuro per il clerical-franchista partito spagnolo di Vox; e che in un momento di sincerità si è sfogata dal palco urlando che per Bruxelles ‘la pacchia è finita’, come se la vera pacchia non sia il piano europeo di ripresa e resilienza che destina all’Italia ben più di duecento miliardi di euro, altro che ‘Roma derubata da Bruxelles”, un altro urlo di stizza sul finale della contesa sulle piazze.
Naturalmente per quasi tutta la campagna elettorale ha moderato i toni, si è voluta rassicurante, e si è anche ‘ravveduta’ rispetto alle posizioni di un tempo: prima no-euro, ora favorevole alla moneta unica; prima ammiratrice e oggi anti Putin; pro-Nato e pro americana quando per anni il suo schieramento è stato percorso da forti componenti anti-yankee mai sconfessate e rintuzzate dal vertice; fino a ieri portabandiera dell’intervento statale e che ora cerca di rassicurare i mercati sostenendo di non volere altri debiti e discostamenti. Un maquillage riuscito, anche se la ‘fiamma’ fascista nel suo simbolo se l’è tenuta stretta, anche se non ha mai voluto saperne di far sue le parole di Gianfranco Fini sul ‘fascismo male assoluto”, anche se si rifiutò di condannare e ammettere che quelli dell’assalto alla sede del sindacato CGIL a Roma erano fascisti dichiarati e patentati, nonostante la Costituzione applicata con stucchevole lassismo proibisca a chiare lettere la creazione di partiti che si richiamino anche fittiziamente al Duce.
Una Giorgia Meloni che in realtà ha saputo ‘cavalcare la vaghezza’, addirittura il silenzio, quando si è trattato di esporre il suo programma, a parte quell’inverosimile e impossibile blocco navale anti-immigrati nel Mediterraneo. Ha così stritolato l’alleato più temuto, il disastroso Matteo Salvini, che perde il confronto anche nelle sue ex roccaforti del Nord industriale, che probabilmente deve rinunciare all’agognato ritorno al ministero degli interni , l’incapace dissipatore che finisce sotto quel 10 per cento di voti che era considerato il minimo per non rischiare anche la leadership della Lega; mentre l’esito della consultazione lascia a Berlusconi (il padre-padrone assoluto che nulla rischia all’interno del suo partito) tracce di forza residua che può regalare al protettore della ‘nipote di Hosni Mubarak’ un ruolo non piccolo all’interno della coalizione.
In sostanza in Italia non esiste più il centro-destra. C’è solo la destra-destra meloniana. Destra netta, dunque. Nazional-sovranista. E trionfante. Che in un crudele gioco di specchi rende ancor più umiliante la disfatta del principale contendente, il PD di Enrico Letta, persona perbene, ma decisamente marziano rispetto al clima elettorale surriscaldato e soprattutto in fatto di tattica e arguzia politica. Era partito con il progetto del ‘campo largo’ per coalizzare quello che viene definito (con evidente forzatura) il centro-sinistra. Lo ha però affossato (andando tranquillamente verso una delle peggiori sconfitte della sinistra nella storia repubblicana) subito dopo la caduta del governo Draghi; troppo scontatamente concentrato sul pericolo fascista; si è fidato di un Terzo Polo centrista (a guida Calenda-Renzi) che in realtà non vedeva l’ora di far corsa solitaria (ottenendo un dignitoso score ma non il traguardo sperato); non ha sopperito puntando con propositi sociali forti e convincenti, che ha in buona parte lasciato ai Cinque Stelle a guida Giuseppe Conte.
Il massimo del trasformismo, che ha abbandonato provvisoriamente la pochette per una tenuta da descamisados, Conte ex ‘avvocato del popolo’ e ora novello Lazzaro, che ha resuscitato il Movimento (togliendo lo strapazzato scettro al fu garante Grillo), che ancora pochi mesi fa sembrava destinato a un impietoso declino, e che ha puntato al Sud e ai milioni di beneficiari del reddito di cittadinanza, promettendo di tutto e di più, naturalmente il tutto ‘gratuitamente’. Mettendo così mettendo in ulteriore difficoltà un Enrico Letta che, oltre a confermare l’immagine di un PD spesso malato in eccesso di ‘governismo’, ha puntato tutto e acriticamente sulla cosiddetta ‘agenda Draghi’, che va inserita anch’essa fra i perdenti di questa storica consultazione. Storica e inquietante. In un’Italia ancora fin troppo benevola nei confronti del ‘ventennio’, come ben documenta il recente libro ‘Mussolini, il capobanda’ di Aldo Cazzullo. Di certo, nelle stanze del Partito Democratico già si cerca l’ennesimo nuovo ‘salvifico successore’.
E’ vero che nella penisola (una durata media di un poco più di un anno per governo nei 74 anni di Repubblica) si procede da un fenomeno politico all’altro, bruciandoli poi impietosamente, da Berlusconi a Renzi a Salvini e si vedrà con Giorgia Meloni. Che assumerà la guida del paese (oltretutto circondata da collaboratori poco accreditati, in alcuni casi ex ministri con bilanci non proprio onorevoli) in un momento difficilissimo sul piano economico-sociale, fra iper-inflazione, annuncio di migliaia di imprese in fallimento, prevedibile fiammata della disoccupazione , imprevedibili sviluppi della guerra di Putin, della tragedia ucraina e delle sue temute ulteriori conseguenze a Occidente. La destra al governo non avrà certo ampi margini di manovra. Forse questa è l’unica buona notizia. Insieme al mancato obiettivo di FDI di conquistare una maggioranza qualificata per procedere anche da sola a riforme come il ‘presidenzialismo’, mai sostanziato nei dettagli, per cui non si è capito se si ripromette un Quirinale più forte grazie al mandato popolare, o un sistema all’americana, o uno alla francese, dove i capi di Stato sono davvero autorità decisionale suprema. Sarà comunque ancor più ‘osservata speciale’, l’Italia cristallizzata da un risultato elettorale atteso, ma che lascia aperti molti interrogativi in questa notte della Repubblica, che ha quantomeno confermato l’elezione alla Camera di Elly Schlein, che alla vigilia della consultazione il londinese ‘Guardian’ definiva ‘l’astro nascente della sinistra italiana’ per la sua capacità di annodare tematiche sociali e ambientali. E si è visto quanto la sinistra italiana ne abbia bisogno.
Elly Schlein, eletta a Montecitorio