Orfani di Roger e delle sue lacrime
La Svizzera ha perso il suo miglior ambasciatore, lo sport l’atleta più amato
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La Svizzera ha perso il suo miglior ambasciatore, lo sport l’atleta più amato
Roger ha fatto piangere con lui mezza umanità. Alla fine la moglie, i genitori e la sorella non ce la facevano piú, sono entrati in campo a consolarlo, avevano paura che fosse colpito da qualche malanno. Piangevano Nadal e Tsitsipas; avevano gli occhi lucidi anche tutti gli altri grandi che non riuscivano ad abbandonarlo: una serie interminabile di abbracci all’uomo che ha nobilitato il loro sport, la loro vita colpendo con arte e grazia inimitabile una pallina, metafora del “fato”, del “ritmo che ci comanda”, come diceva Archiloco di Paro 25 secoli fa. David Foster Wallace, nel suo libro Roger Federer come esperienza religiosa dice che la sua arte s’avvicina al mistero, alla metafisica.
Il testo, tradotto in italiano da Casagrande, poteva apparire esagerato, una proiezione dei sogni dell’autore, in gioventù tennista mancato. Ma stanotte, verso l’una e trenta, quando Roger ha servito per l’ultima volta alla presenza di un paio di miliardi di umani sparsi nel mondo, abbiamo capito che il poeta Wallace (le poète a toujours raison – Jean Ferrat) non era fuori strada.
Perché tanta partecipazione, tanta commozione, quel voler prolungare la presenza fisica, del Maestro, del sublime interprete del tennis, aveva poco a che vedere con il saluto che si tributa a un grande dello sport. E qui semmai, a rendere ancora più profondo il mistero, va aggiunta un’altra osservazione di Wallace, che sembrerebbe una mazzata al mito di Roger, ma non lo è. Accade quando lo scrittore statunitense cerca di strappare a Federer il mistero della sua preveggenza, della sua simbiosi con la pallina, con il colpo dell’avversario, con la sua potenza e la sua traiettoria che lo svizzero riesce a leggere in anticipo, nemmeno fosse dotato di una forza psichica che gli permette di vedere con chiarezza le mosse dell’avversario.
Wallace si mostra estremamente deluso dalle spiegazioni che Federer dà della sua arte: you know, gli dice, io faccio questo o quel movimento a dipendenza di quello dell’avversario. Ma il problema è irrisolto: il problema consisterebbe nel sapere non come lo fa, ma come riesce a farlo. Per Federer tutto quello che a Wallace risulta misterioso, non lo è, è cosa semplice. Wallace non ha risposta, non può risolvere il mistero; non gli resta che accettare, appunto, il lato metafisico, che va completamente al di là del razionale. Federer non ha tempo per i calcoli: la palla, a oltre 150 km orari, glielo impedisce, e anche la scelta del colpo, della traiettoria, lunga, corta, centrale, laterale impressa dall’avversario.
E allora non resta che passare a un’altra dimensione, a un territorio sconosciuto, un po’ come quando i poeti dicono che non sono loro a scrivere, è la poesia, l’ispirazione che li fa scrivere, loro devono avere la mente sgombra, attendere solo “di essere scritti”.
Roger ci ha a lungo deliziato con i suoi colpi nei quali non ha mai rinunciato all’arte, a costo di perdere. L’estetica nello sport, a maggior ragione nello sport moderno, sempre piú fisico, non ha posto, se non in certe discipline in cui per l’estetica si attribuisce una nota. Ma nel tennis la forza bruta ti può dare il punto decisivo e nessuno si lamenta. Federer tuttavia non era l’art pour l’art, la sua estetica non era fine a se stessa, non era narcisismo.
Lo ha dimostrato anche nell’ultima esibizione in doppio con il suo rivale e amico Nadal. In molti casi ci si è chiesti: ma in cosa consiste il suo problema? Quale parte del corpo non risponde più alle sue sollecitazioni? Il ginocchio forse? In un solo caso, durante questa storica ultima partita, abbiamo avuto l’impressione che Federer fosse invecchiato: quando ha tentato di arrivare su una palla corta, e il piede non ha risposto, ha reagito con un attimo di ritardo. O quando non è stato pronto, non ha intuito il colpo a rete. Ma in molte altre occasioni è stato stupendo: in qualche smash in cui ha unito alla perfetta scelta di tempo una grande elevazione, in qualche discesa a rete conclusa con un colpo in diagonale imprendibile, in qualche servizio.
Il doppio, malgrado il titolo olimpico conquistato con Wawrinka, non lo ha mai affascinato. Il problema che l’ha indotto al ritiro è dato dalla resistenza del ginocchio, che un singolo non reggerebbe alla distanza. Altrimenti, nel doppio, Federer avrebbe potuto giocare sino a 50 anni, e vincere altre medaglie olimpiche. Nella sua ultima esibizione tra l’altro ha firmato un colpo da mago, non voluto, ma ugualmente significativo del suo rendere possibile l’impossibile: ha fatto passare la pallina in modo millimetrico a 150 km l’ora fra il palo di sostegno della rete e la rete stessa: punto non valido ma che sta già facendo il giro del mondo.
Federer ha speso copiose lacrime, come quando vinceva e si rotolava a terra sui campi di tutto il mondo, di Wimbledon in particolare. Le sue lacrime sono vere, sincere, sono quelle dell’uomo che ha amato in modo totale il suo sport, la sua arte. L’ha usata per comunicare con tutti noi, proprio come gli atleti greci che a Olimpia gareggiavano nudi per rendere onore agli Dei che li avevano dotati di un corpo meraviglioso. Ha messo a nudo le sue emozioni in un tempo in cui i sentimenti sono visti con sospetto, perché non si possono mettere in qualche file del computer, non hanno la casella adatta.
Lo sport ha perso il suo migliore ambasciatore, la Svizzera pure. Federer è stato per noi rossocrociati una manna caduta dal cielo. Ha dato di noi un’immagine che va al di là dei nostri meriti; grande nella sua techne, nel suo mestiere (nel suo lavoro) generoso con le donazioni ai bambini poveri di tutto il mondo, mai sopra le righe, lontanissimo da certo star-system, speriamo possa trovare un altro campo della vita nel quale far valere il suo talento, magari proprio nel tennis, anche se la sua arte è stata e resterà tutta interiore, impossibile da insegnare.
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