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Piuttosto che finire nella guerra di Putin, i russi preferiscono lasciare il Paese
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Piuttosto che finire nella guerra di Putin, i russi preferiscono lasciare il Paese
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Piuttosto che finire nella guerra di Putin, i russi preferiscono lasciare il Paese
Il discorso televisivo di Vladimir Putin alla nazione russa è un’operazione di propaganda travestita da chiamata alle armi. Il capo del Cremlino ha annunciato una «mobilitazione parziale» per trovare nuovi uomini da mandare a combattere in Ucraina: una risposta ai recenti successi militari dell’Ucraina nei territori che l’esercito russo aveva occupato all’inizio dell’invasione. L’obiettivo del Cremlino è richiamare in servizio i riservisti, cioè chi è in congedo permanente dopo aver fatto il servizio militare e non partecipa più alle operazioni militari.
Il cambio di tono e di strategia rispetto al passato sembra evidente: Putin non ha mai parlato apertamente di guerra, ma fin dall’annuncio del 24 febbraio ha sempre descritto l’invasione come «operazione militare speciale».
Potenzialmente potrebbe essere il preludio a una dichiarazione di guerra formale all’Ucraina. La settimana scorsa il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, aveva negato questa possibilità, ma aveva risposto negativamente anche sulla possibilità di mobilitare i riservisti (sappiamo ormai che le sue parole hanno un grado di credibilità piuttosto basso).
Inoltre martedì la Duma, il parlamento russo, aveva emendato il codice penale del Paese per inasprire le pene contro i soldati che si arrendono o disubbidiscono agli ordini, specificando situazioni di «mobilitazione, legge marziale e tempo di guerra» come possibili aggravanti.
Il ministro della Difesa russo Sergej Šojgu ha detto che saranno mobilitati 300mila russi su un totale di circa due milioni di riservisti. È una stima molto ottimistica: si tratta di un provvedimento molto impopolare e migliaia di russi si sono subito messi alla ricerca di soluzioni per scansare la chiamata.
Poche ore dopo il discorso di Putin i voli in partenza dalla Russia verso praticamente qualunque altra destinazione sono andati esauriti: le destinazioni più gettonate sarebbero soprattutto Turchia, Azerbaigian e Armenia cioè Paesi che non richiedono visti all’ingresso per i russi. I voli per questi tre Stati sono già colmi, e i prezzi dei biglietti sono schizzati alle stelle.
Un biglietto per il volo di sabato – una tratta da quattro ore e mezza – costa 173mila rubli, circa 2.870 euro. Ma fino a martedì sera costava circa 350 euro.
«Dubito che riusciranno a mobilitare così tanti uomini come dicono», ha scritto in un thread su Twitter Sergej Sumlenny, giornalista, politologo e scrittore di origine russa che ha lavorato a Mosca per l’emittente televisiva tedesca Ard ed è stato caporedattore di un telegiornale dell’emittente commerciale russa RBC-TV. «Per integrare così tante persone avrebbero bisogno di strutture libere e ufficiali militari, circa 500-800 per divisione».
L’analisi di Sumlenny, insomma, porterebbe a pensare che per Mosca non sarà così facile muovere tanti riservisti in breve tempo. Oltre al fatto che fin dall’inizio della guerra si parla delle enormi difficoltà dell’esercito russo nell’equipaggiare e armare a dovere i suoi soldati – e poi anche dei problemi logistici nel muovere e organizzare così tanti uomini.
«L’unico motivo per parlare di mobilitazione è per pura propaganda», aggiunge Sumlenny. «La Russia sta anche cercando di spaventare l’Occidente facendogli credere che abbia risorse illimitate (è una menzogna) e che ci sarà un’escalation del conflitto (un’altra menzogna)». Per la Russia una mobilitazione, anche parziale, è un rischio, un’operazione che rischia di metterne a nudo ancor di più le difficoltà e i problemi organizzativi.
Tra l’altro il discorso di Putin è arrivato poche ore l’inizio dei lavori del mercoledì alla 77esima Assemblea Generale dell’Onu. Da New York il portavoce del Servizio di Azione Esterna dell’Unione europea, Peter Stano, ha definito la mobilitazione della Russia «un attacco ai principi fondamentali della comunità internazionale e alla Carta delle Nazioni Unite, e fondamentalmente è un attacco contro tutti i Paesi che hanno sottoscritto i principi del diritto internazionale, della sovranità e dell’indipendenza delle nazioni».
Oltre alla mobilitazione parziale, l’autocrate russo ha insistito anche che sui referendum che hanno indetto per i prossimi giorni le autoproclamate repubbliche autonome del Donbas, Lugansk e Donetsk – già riconosciute come indipendenti da Mosca – e le aeree di Kherson e Zaporizhzhia. Le consultazioni vorrebbero essere un sistema per annunciare la volontà di annessione alla Russia.
«In altre parole, stanno pianificando sondaggi truccati per consentire alla Russia di annettere illegalmente più territorio ucraino», scrive l’Economist. «Uno degli obiettivi dei referendum è quello di contenere i successi militari ucraini nel Donbas: in caso di annessione formale di Lugansk e Donetsk in teoria il Cremlino potrebbe dichiarare che le offensive ucraine in quelle aree sono stati attacchi al suolo russo».
Sarebbe una copia di quanto già accaduto con la Crimea nel 2014: allora la penisola fu annessa con un referendum pilotato, che però si rivelò sufficiente per permettere ai funzionari russi di inibire i tentativi di riconquista ucraini. La speranza è che, otto anni dopo, l’Ucraina e i suoi alleati occidentali e democratici riescano a frenare le ambizioni imperialiste del Cremlino. O che quest’ultimo si fermi da solo sbagliando tempi e modi delle sue strategie.
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