Qualche guardata sulla “nave dei folli”
Con nocchieri paranoici e ciurma imbriacata si naviga a vista fra contraddizioni e paradossi, guardando a terra, sul filo dell’attualità
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Con nocchieri paranoici e ciurma imbriacata si naviga a vista fra contraddizioni e paradossi, guardando a terra, sul filo dell’attualità
• – Silvano Toppi
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• – Franco Cavani
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• – Redazione
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• – Redazione
Con nocchieri paranoici e ciurma imbriacata si naviga a vista fra contraddizioni e paradossi, guardando a terra, sul filo dell’attualità
Se ne è tornato a parlare: metà in inglese, come lingua imperiale comanda. Faccio un conto e scopro che nel mondo (su quella nave di folli) ci sarebbero 12.705 testate nucleari. Ed è come un gioco di bussolotti: se gli Stati Uniti ne hanno 5.428, la Russia deve averne 5.997; se l’India ne ha 160, il Pakistan deve averne 165; se il Regno Unito ne ha 225, la Francia deve averne 290; se Israele ne ha 90, l’Iran (che dev’essere il meno fidato di tutti) non deve averne per nessuno. Appare singolare che in Svizzera qualcuno ci abbia pensato (almeno, a quanto risulta da Palazzo: come faremmo altrimenti a difenderci o incutere timore?), ma non si è ancora osato proporre, contando comunque sull’”ombrello atlantico”; avremo infatti gli F35A progettati per piazzare le testate americane, già abbondantemente dislocate (almeno 100) nelle vicinanze del Ticino, a Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone), pronte da imbarcare e per l’uso.
Insomma, quanto basta per annientare ogni vita o distruggere il pianeta non una volta ma almeno tre volte, se dopo la prima e la seconda rimarrà ancora qualche robot per sganciare le rimanenti testate o qualche vivente da polverizzare.
“Et in pulverem reverteris”, e tutto ritornerà polvere. Lo prevedeva anche la Genesi (3,19), così ci suggerirà qualche Cirillo patriarca, giustificando tutto.
Dall’inizio dell’anno, facendo anche qui qualche calcolo, sono stati bruciati nella sola Europa 766 mila ettari di foreste. Ciò che equivale, per intenderci, a metà di tutta la superficie forestale svizzera o a tutto l’Altipiano della Svizzera. Il riscaldamento climatico e le foreste in fiamme sono strettamente legati: una temperatura elevata favorisce la traspirazione delle piante, l’effetto di essiccazione aumenta il rischio d’incendio, si libera carbonio (6.4 mega tonnellate secondo i rilievi del Global Fire Assimilation System), si aumenta l’effetto serra e l’emissione di polveri fini che accelerano, annerendoli, lo scioglimento dei ghiacciai.
In Svizzera l’isoterma di 0°C (chiamata anche livello di congelamento) è stata collocata quest’estate all’altezza di 5.184 metri (era un tempo tra 3.000 e 3.500 m.). I ghiacciai svizzeri, a causa del clima, hanno perso in poco meno di quindici anni 22 chilometri cubi di ghiaccio, ciò che corrisponde a uno strato di ghiaccio di poco più di un metro su tutta la superficie della Svizzera. Se il surriscaldamento ambientale proseguirà, tra un secolo non avremo più ghiacciai, ci dicono i glaciologi. Le conseguenze si sono già drammaticamente manifestate in quattro settori: dei rischi naturali, dello sfruttamento idroelettrico e produzione di elettricità, del turismo, dell’agricoltura-allevamento.
Fuoco e ghiaccio (acqua), due dei quattro elementi (con aria e terra) che sono alla base della creazione del mondo (come già ci insegnavano Anassimete di Mileto e Talete, filosofi greci, nel VI secolo a.C.): la nave dei folli li ha resi estremi, li ha resi distruttivi o autodistruttivi, sta annientandoli.
Alcuni nocchieri (capintesta di partiti politici) ritengono però che è stato allarmando su quei quattro elementi vitali, facendone un terrore, che si è generata una crisi dell’energia. Per lasciar campo, non a foreste e ghiacciai, ma ad una dittatura (della sinistra, terrorista) e quindi alla fine della democrazia più che della vita sulla terra. Hanno riscoperto “Moriae encomium” (o anche “Stultitiae laus” o Elogio della follia) di Erasmo quando dice, ad esempio, che “a forza di sterminare animali s’era capito che anche sopprimere l’uomo non richiedeva un gran sforzo”.
L’inflazione è l’aumento generalizzato dei prezzi. È un altro terrore che muove tutte le artiglierie monetarie delle Banche centrali, sulla scia della Federal Reserve americana, compresa la Banca Nazionale svizzera. Le quali, per farvi fronte, alzano i tassi di interesse, rendendo il denaro più caro (dopo averlo sparso per anni a diffusione, a grande godimento del settore finanziario gonfiatosi a dismisura nei corsi e valori dei titoli e nei dividendi distribuiti; ma qui non si parla mai di inflazione).
Nella composizione di un costo (e quindi del prezzo) di un bene, di un prodotto, rientra il costo del lavoro (il salario). E siccome il salariato è sempre il bersaglio da colpire (o il disgraziato che gli tempesta anche nel forno o che anche le pecore lo mordono, come dicono due proverbi fiorentini), ecco che riappare, come causa dell’inflazione, la famosa spirale prezzi-salari: diminuisce il potere d’acquisto, lavoratori e sindacati chiedono salari più alti, aumenta in tal modo il costo del lavoro e del prodotto, aumentano i prezzi, cresce di più l’inflazione. Minacce di disoccupazione da parte del padronato, fallimenti annunciati per perdita di competitività e ventilate dislocazioni di attività là dove i salari sono bassi, dumping salariale ricorrendo a frontalieri, emigranti, rifugiati (magari ucraini).
Esce un accurato ed esteso studio del quotato Economic Policy Insitute con un titolo e una domanda già significativi (Corporate profits have contributed disproportionately to inflation. How should policymakers respond? [I profitti aziendali hanno contribuito in modo sproporzionato all’inflazione. Come dovrebbero reagire i politici?]). Operando sugli ultimi due anni (sull’economia americana, sulle società non finanziarie) risulta, per riassumere al massimo, che hanno contribuito nella misura del 53.9 per cento all’aumento dell’inflazione i profitti delle società, nella misura del 38.3 per cento i “nonlabor input costs” (in pratica i costi delle materie prime, dei prodotti semifiniti ecc.) e solo nella misura del 7.9 per cento i costi del lavoro.
La conclusione cui si arriva è triplice: non è un semplice squilibrio macroeconomico tra domanda e offerta che sta alimentando l’inflazione; il potere già eccessivo delle società è stato ancora accresciuto indirizzandolo verso l’aumento dei prezzi (e dell’inflazione), con un aumento dei margini di profitto sproporzionato; non sono gli aumenti rapidi e bruschi dei tassi di interesse che freneranno le pressioni inflazionistiche a breve e medio termine, potrebbe essere più efficace, nel corso dell’anno, un’imposta sugli “excess profits”, sugli utili eccessivi, che avrebbe un certo peso compensativo rispetto al potere sui prezzi delle imprese. Per averne una semplice conferma basterebbe pensare che, secondo la stessa Agenzia internazionale dell’energia, i superprofitti del settore energetico hanno superato il 40 per cento (200 miliardi di franchi).
Siamo quindi nel bel mezzo di una delle più grosse follie della nostra epoca (paradox of our age, dice lo studio). E cioè: l’organizzazione economica e sociale che doveva garantire prezzi bassi in cambio della cosiddetta “moderazione salariale” (giocando anche sul ricatto di salvare la nave comune con la mitica competitività e l’occupazione) ha condotto invece a prezzi elevati per incrementare i profitti, senza la possibilità per i salari di adeguarvisi. Ed è quanto tornano a dirci in questi giorni gli ambienti economici.
Nel primo semestre di quest’anno, mentre i mercati borsistici impazzivano, il settore della salute è stato l’unico a offrire un rifugio sicuro e un guadagno certo agli investitori: in otto mesi, sui mercati internazionali delle azioni, è infatti cresciuto del 15 per cento. Gli esperti del settore ci dicono che siamo solo agli inizi di una terza ondata di innovazioni nel campo della biotecnologia e della scoperta di nuove medicine, promessa di guadagni stratosferici per gli investitori. Non possiamo ovviamente negare che l’investimento, anche con il fattore rischio che comporta, è essenziale per la ricerca, l’innovazione, la scoperta di nuovi medicamenti o di nuove procedure d’intervento sulla salute. “Tanto che industrie farmaceutiche o varie imprese del settore della salute hanno tutte le chances di trarre grandi profitti dal prossimo mercato che sarà sempre al rialzo” (come si scrive in un dispaccio informativo di Capital Group, agenzia americana di investimenti, specializzata nel settore, una delle più grandi al mondo, che ha sede anche in Svizzera).
Qui la follia sta nell’identificare o assimilare la salute con i redditi o il cash-flow reali che riesce a generare nelle imprese. O li genera o è inutile. La follia sta nel ritrovare tutto questo nei premi delle casse malati che, per generare profitti e dividendi, devono stare al passo, cavando redditi dalle famiglie e dalla loro salute.
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