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Neo-statalismo e de-globalizzazione?
Naufragi

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Il meglio letto/visto per voi

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Rösti
La matita nell'occhio

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Neo-statalismo e de-globalizzazione?
Naufragi

Neo-statalismo e de-globalizzazione?

Non basta usare lo Stato per ripensare e ricostruire la società. Occorre uscire dall’ingegneria sociale del mercato e della tecnologia


Lelio Demichelis
Lelio Demichelis
Neo-statalismo e de-globalizzazione?
• 13 Dicembre 2022 – Lelio Demichelis

Dai fasti infausti della globalizzazione alla de-globalizzazione sovranista/nazionalista? Dal nichilismo sociale e ambientale del neoliberalismo al ritorno dell’intervento statale in economia (neostatalismo), passando per le politiche monetarie, energetiche e ambientali? Davvero siamo nel punto di passaggio tra due ere ideologiche, come sostiene Paolo Gerbaudo nel suo Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato (Nottetempo), cioè tra neoliberalismo e libertà agli spiriti animali del capitalismo da un lato e ricerca di un nuovo ruolo dello Stato per fronteggiare le “molteplici forze che sembrano minacciare la stabilità e la sicurezza dei cittadini e consentire loro di progettare il proprio futuro”? Stiamo davvero entrando – dopo la parte destruens del populismo degli anni Dieci del Duemila – in una parte construens governata appunto dal neostatalismo? Ma su tutto: davvero “i dogmi più screditati dell’ideologia del libero mercato sono ormai inservibili”, come scrive sempre Gerbaudo, per cui “la bancarotta del neoliberismo non è più solo finanziaria ma anche morale e politica”?

A noi sembra invece che il capitalismo stia benissimo; che benissimo stia anche l’ideologia neoliberale; che i gigacapitalisti siano sempre più ricchi; che la resilienza, la sostenibilità e la transizione ecologica siano solo pannicelli caldi per mascherare la continuazione del tecno-capitalismo con altri mezzi e in altri modi; che non di bancarotta si debba quindi parlare, ma di sua ulteriore coazione a ripetersi. Confermandosi l’analisi di un grande economista italiano (keynesiano) come Giorgio Lunghini (1938-2018), cioè che grande è certamente la ricchezza materiale prodotta dal capitalismo – sistema che ha la straordinaria capacità di mutare forma per conservare la propria sostanza – ma grande è anche la contraddizione tra disoccupazione, distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito da una parte e bisogni sociali insoddisfatti dall’altra. “Una contraddizione che l’ideologia del mercato tende a nascondere e che il mercato non potrà comporre, essendone infatti la causa”.

Mutare forma senza cambiare la sua sostanza, cioè trasformismo incessante di sé – perché dalla fabbrica di spilli di Adam Smith alla catena di montaggio di Ford, alla lean production e al capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza di oggi è sempre capitalismo, è sempre ricerca del massimo profitto privato, è sempre nichilismo dei suoi spiriti animali, è sempre ricerca di nuovi mercati con cui e da cui produrre/estrarre plusvalore attraverso la generazione crescente di pluslavoro di massa. Sempre con la complicità dello Stato (la sovrastruttura che legittima, in rapporto di reciprocità, la struttura economica capitalistica, direbbero Marx ed Engels), perché – come ricorda anche Gerbaudo – “dietro la cortina retorica della narrazione del libero mercato, del mercato che si auto-regola, dell’imprenditoria che si fa da sé, si intravedono gli ingranaggi, le pulegge e le corde del capitalismo, la connessione stretta tra Stato e imprese, il ruolo delle lobby”; cioè lo Stato è sempre “coinvolto nella riproduzione del sistema economico e delle sue enormi disuguaglianze”.

E dunque, il neostatalismo di cui scrive (con cautela) Gerbaudo è davvero una tendenza che porta a un cambio di paradigma, oppure è solo e sempre trasformismo tecno-capitalista? Torniamo ai classici: “L’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio di azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo Stato”. E ancora: “I difetti lampanti dell’economia odierna sono: la sua incapacità di provvedere alla piena occupazione; e la sua distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi”. Di più: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari”. E anzi spreca deliberatamente una quantità enorme di risorse nella lotta per la concorrenza. Ed è incapace “di garantire l’allocazione inter-temporale delle risorse; dunque solo lo Stato potrà occuparsi del nostro futuro a lungo termine”. Da qui l’esigenza di avere sì un mercato efficiente e ben funzionante, ma di averlo fortemente regolato. Quindi e conseguentemente è necessario guidare l’economia attraverso precise politiche monetarie, industriali, sociali e fiscali poiché i mercati quasi mai sono in grado di raggiungere un equilibrio efficiente. Salute e ambiente, ad esempio, sono beni pubblici che acquisiranno un valore crescente e anche questo giustificherà l’intervento dello Stato.

Chi scriveva queste riflessioni? Un comunista, un rivoluzionario anticapitalista, un vecchio e incanutito no-global? No, le scriveva un liberale come John Maynard Keynes (1883-1946), giusto un secolo fa, che certo voleva salvare il capitalismo da se stesso, ma almeno lo voleva riformare profondamente; un intellettuale e un economista che abbiamo dimenticato troppo in fretta, travolti dall’ideologia neoliberale oggi ancora perfettamente egemone nonostante quarant’anni di disastri sociali e ambientali. E se questa è la pessima condizione del mondo di oggi come di allora, dovremmo almeno tornare a Keynes e al suo modello di politica economica: intervento dello Stato in economia finalizzato anche alla ricerca della piena occupazione e alla riduzione delle disuguaglianze, oltre che alla predisposizione di azioni per l’allocazione inter-temporale delle risorse, perché solo lo Stato (e non certo il mercato e il capitale) può occuparsi del nostro futuro a lungo termine, cosa ancora più vera oggi (e nonostante il fallimento anche della recente COP 27), in piena emergenza climatico-ambientale e con l’imperativo categorico che dovremmo assumerci oggi di garantire domani un ambiente degno di essere vissuto dalle future generazioni.

Sì, dovremmo, ma immaginando un ruolo dello Stato appunto ben diverso da quello residuale imposto dal neoliberalismo, ma anche da quello ipotizzato da Keynes per salvare il capitalismo. Il problema vero, infatti, è uscire dalla contraddizione capitalistica di cui scriveva appunto Lunghini. Per cui non basta “controllare il mercato” o “usare lo Stato per ripensare e ricostruire la società”, confidando “nella forza creativa della politica” (Gerbaudo), ma occorre piuttosto uscire dalla contraddizione, dall’ingegneria sociale del mercato e della tecnologia, ben più pervasiva e invasiva – il tecno-capitalismo è la nostra way of life, è la forma anche della politica e dello Stato – di quella che potrebbe avere un “socialismo protettivista” capace di rimuovere populismi e sovranismi di destra. Contraddizione che Gerbaudo non sembra risolvere.

È un libro comunque utilissimo per tornare a immaginare, pensare, costruire un’alternativa possibile a questa tautologica ideologia neoliberale e tecnologica che sembra averci davvero catturato l’anima. Andando però oltre, molto oltre al neostatalismo presente e a quello immaginato da Gerbaudo, che ha esso stesso molti limiti, ponendosi piuttosto, come riconosce l’Autore, più come “Stato bancomat” e come “costruttore di un welfare senza welfare state” che come Stato capace di una visione del futuro. Perché neppure i neostatalisti di oggi si propongono davvero la piena occupazione, la redistribuzione della ricchezza, la tutela del lavoro e dei lavoratori e la gestione intergenerazionale delle risorse e dell’ambiente. E quindi dobbiamo sempre e comunque ricordare, con Gerbaudo, che “un capitalismo neostatalista, anche se sotto controllo di forze socialdemocratiche, sarà sempre capitalismo e continueranno a palesarsi le tensioni tra capitalismo e democrazia”, oltre alla crescente mercificazione della società e allo sfruttamento crescente e irresponsabile di uomini e biosfera.

Nell’immagine: una raffigurazione degli “spiriti animali”, cioè le emozioni umane che secondo Keynes influenzano l’andamento dell’economia






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