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Maurizio Solari
Maurizio Solari
Reddito, lavoro e capitale
• 13 Settembre 2021 – Maurizio Solari
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L’iniziativa “Sgravare i salari, tassare equamente il capitale” – meglio conosciuta come “iniziativa 99%” – ha il pregio di riaprire il dibattito sulla (re)distribuzione del reddito e sulla sua origine. Tuttavia, ha anche il difetto di non approfondire a sufficienza la questione, mancando in parte l’obiettivo. Andiamo con ordine, iniziando dal capire cos’è il reddito, la cui definizione è ancora oggi oggetto di dibattito fra diverse scuole di pensiero in economia. Per la teoria attualmente dominante, quella neoclassica, il reddito sarebbe la remunerazione esatta della produttività marginale dei fattori di produzione, cioè il lavoro, il capitale e la terra. La produttività marginale è sostanzialmente l’apporto alla produzione che ognuno di questi fattori fornisce. Ad esempio, un lavoratore riceve un determinato salario perché il suo contributo nel generare il prodotto finale è equivalente a quell’importo, così come un capitalista riceve un reddito perché il suo capitale ha contribuito alla produzione per quell’esatto ammontare. Discorso analogo per il proprietario terriero, remunerato con una rendita equivalente alla produttività marginale del suo terreno.

Tuttavia, non viene specificato come misurare il contributo di questi differenti fattori. Anzi, risulta impossibile quantificare la produttività marginale di ogni lavoratore, unità di capitale o di terreno come lo vorrebbe la teoria neoclassica. Ciò è vero per la produzione industriale e ancora di più per quella legata al terziario, dove gli orari di lavoro sono più flessibili, il lavoro di squadra assume ancor più importanza e soprattutto il prodotto non è esso stesso quantificabile, pensiamo ad esempio ai servizi di cura alla persona in ambito sanitario, per restare alla stretta attualità. La risposta degli economisti neoclassici è che la produttività marginale è misurata dal reddito corrisposto. In altre parole, il reddito è determinato dalla produttività marginale, la quale è definita dal reddito. Si tratta di un ragionamento circolare e inconcludente: il cane che si morde la coda e che, per di più, rimane a bocca asciutta.

Fortunatamente, esiste un approccio alternativo a questa concezione, che inevitabilmente e giustamente considera gli aspetti sociali e politici legati alla distribuzione del reddito. Prima dell’industrializzazione di massa, in epoca feudale per intenderci, il settore fondamentale nella produzione era quello agricolo, per il quale la terra è elemento evidentemente essenziale. Non sorprende, quindi, che a quel tempo le persone più benestanti fossero i proprietari terrieri, facenti parte della classe nobile. Con l’industrializzazione, i rapporti di forza si sono spostati a favore della classe borghese, proprietaria del capitale-macchina fondamentale per la produzione industriale e perciò in grado di trarne un vantaggio in termini di benessere materiale, oltre che di ottenere un cambiamento dell’ordine politico attraverso le cosiddette rivoluzioni borghesi (inglese, americana e francese). Eppure manca un elemento nella narrazione: il lavoro umano, necessario sia all’agricoltura, sia all’industria, sia – per riavvicinarci al presente – alla produzione di servizi del sempre più importante settore terziario.

Ebbene, il lavoro è in realtà l’unico fattore di produzione. Intendiamoci, non significa che capitale e terra non abbiano nessuna importanza. Al contrario, essi permettono di aumentare la resa del lavoro, la sua produttività marginale per dirla coi neoclassici. Pensiamo alla rivoluzione informatica, nella quale l’avvento dei computer (capitale) ha permesso di ridurre drasticamente il costo e il tempo necessario per lo scambio di informazioni e di conoscenza, aumentando drasticamente la resa di innumerevoli lavoratori in quasi tutti gli ambiti produttivi. Analogamente, più il terreno è fertile e più chi lo coltiva otterrà dei frutti dal suo lavoro. Tuttavia senza lavoro non esiste produzione: un computer non sarebbe operativo senza un lavoratore che lo accenda e lo usi (e prima ancora lo produca), così come un terreno non produrrebbe alcun alimento senza l’intervento umano, se non qualche casuale pianta da frutta qua e là, ma anche in questo caso servirebbe un lavoro di raccolta per usufruirne.

Perciò, se il lavoro è l’unico fattore di produzione, il salario dovrebbe essere l’unica forma di reddito. Perché allora parliamo di redditi da capitale? Per il motivo che le aziende possono vendere i beni e servizi prodotti a un prezzo superiore al costo di produzione, facendo così un profitto, che viene poi distribuito in interessi, dividendi, affitto di terreni o immobili e così via. In altre parole, il reddito da capitale (così come il reddito fondiario) sono redditi derivati, ovvero una parte di salario trasferita dal lavoratore al capitalista (azionista, creditore, speculatore, proprietario dei terreni o degli immobili) tramite l’intermediazione dell’azienda. Questo trasferimento è giustificato in vari modi che ne evidenziano l’effetto positivo sulla produzione, come il rischio di prestare il proprio denaro o di fare impresa, l’astensione dal consumare parte del proprio reddito per investirlo, e così via. Tuttavia esistono forme di capitale che non costituiscono un supporto all’attività economica, fra cui gran parte dei titoli finanziari derivati, ma non solo. Basti pensare alla sempre più diffusa pratica fra le aziende di acquistare le proprie azioni sul mercato, con il solo obiettivo di aumentarne la quotazione borsistica e generare un guadagno per gli azionisti, senza minimamente aumentare l’attività produttiva dell’azienda stessa. È qui che traspare la relazione di potere celata dietro ai redditi da capitale, quella che causa un trasferimento di reddito anche laddove il capitalista non fornisce nessuna partecipazione alla produzione che possa giustificarlo.

In questo senso imporre maggiormente i redditi da capitale per diminuire il carico fiscale sui redditi da lavoro medio-bassi costituisce un passo nella giusta direzione. Ciononostante, si tratta di una misura che cerca di rimediare a un problema senza attaccarlo alla radice, quello della concentrazione verso l’alto di redditi e ricchezza sia a livello mondiale sia in Svizzera. Le cause fondamentali di quest’evoluzione sono state due. Da un lato vi è la liberalizzazione del movimento internazionale dei capitali, intensificata dal progresso tecnologico che permette ormai di spostare il proprio patrimonio con un semplice click del mouse. La possibilità di delocalizzare la produzione in zone del mondo dove i diritti e di conseguenza il costo del lavoro sono esigui, ha incrementato a dismisura i profitti, cioè la differenza fra costo di produzione e prezzi di vendita. Inoltre, e si tratta della seconda causa, ciò ha accresciuto la concorrenza fiscale fra paesi (e anche fra regioni interne a uno stesso paese, come per i cantoni svizzeri), generando una serie di sgravi fiscali sia sulle persone giuridiche sia sulle persone fisiche benestanti. Basti pensare che in alcuni periodi fra gli anni ’50 e ’70 esistevano – negli Stati Uniti, capofila del liberalismo economico – aliquote fiscali marginali vicine al 100 per cento: se guadagnavi più di una certa soglia, ben inteso decisamente alta, tutto quel guadagno eccedente finiva in imposte allo Stato. Oggi siamo molto lontani da tutto ciò e infatti le disuguaglianze nella distribuzione sia del reddito sia della ricchezza sono in pericoloso aumento.

L’iniziativa in votazione il prossimo 26 settembre contrasta tutt’al più quest’ultima causa, ma in realtà in un modo abbastanza singolare. Invece di aumentare le aliquote fiscali migliorando o ripristinando una vera progressività, preferisce moltiplicare per 1,5 il reddito imponibile oltre una certa soglia. Si tratta sicuramente di una scelta che faciliterà – se mai ci si arriverà – l’applicazione parlamentare della legge, tuttavia viene a mancare un discorso di giustizia sociale pre-imposizione fiscale e una vera tematizzazione di cosa sia il reddito da capitale e delle sue sfaccettature. Ad esempio, sarebbe stato positivo differenziare fra guadagni da operazioni di compravendita di titoli derivati e redditi da capitale legati ad attività produttive. Oppure, nel segno di una politica ecologica che stenta ad andare oltre ai proclami, si sarebbe potuto pensare a un’aliquota maggiorata per i redditi derivanti da operazioni legate ad aziende a forte impatto ambientale. Inoltre, non viene in nessun modo toccata la prima delle cause citate che stanno alla base del problema, nonostante sia necessario e urgente farlo. L’iniziativa costituisce un primo positivo passo, che sarà però insufficiente se non sarà seguito da altri. In ogni caso, ritematizzare la formazione e la distribuzione del reddito in Svizzera come altrove è fondamentale per capire sia i problemi attuali sia come risolverli.

Maurizio Solari è assistente presso la facoltà di economia dell’Università di Friborgo






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