Dell’11 settembre e dei suoi veleni
Vent’anni dopo l’attacco jihadista all’America, diario di una crisi infinita
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Vent’anni dopo l’attacco jihadista all’America, diario di una crisi infinita
• – Aldo Sofia
L'11 settembre e le sue conseguenze. Incontro con Gilles Kepel, politologo, studioso di islam e storico del Medio Oriente
• – Aldo Sofia
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• – Franco Cavani
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• – Marco Züblin
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• – Enrico Lombardi
Vent’anni dopo l’attacco jihadista all’America, diario di una crisi infinita
Dal collasso delle Torri gemelle alla notte di Kabul. In mezzo, lungo due decenni, un rosario di drammi e di sconvolgimenti. Chiaro, dice oggi lo storico Gilles Kepel, quale fosse l’obiettivo di Bin Laden : che pure, insieme ai mujaheddin islamici vittoriosi contro l’Unione Sovietica, aveva ottenuto proprio da Washington, via Pakistan, soldi e missili per piegare e umiliare l’occupante e l’impero comunista (faceva molto comodo sostenere quelli che allora chiamavamo ‘combattenti della libertà’): si trattava, per il saudita fondatore di Al Qaeda, di dimostrare innanzitutto all’umma musulmana che l’Occidente poteva essere battuto attraverso ‘l’arma dei poveri’, il terrorismo. Messaggio all’origine dello sviluppo del jihadismo planetario. Che la Casa Bianca, a lungo spalleggiata da una stampa acriticamente allineata, ha cercato di vincere con due guerre sbagliate. In Iraq e in Afghanistan. Sappiamo con quale esito: incompiuto, se non disastroso.
Verso la “tomba afghana degli imperi” si era partiti con l’obiettivo (comprensibile) di svuotare le basi del terrorismo islamico che l’11 settembre aveva colpito il ‘bersaglio grosso’, missione poi trasformata in progetto o tentativo di ‘State building’, l’illusoria costruzione di uno Stato il più possibile democratico, da cui escludere il feroce fondamentalismo talebano. Nei fatti, cioè nella conclusione, missione fallita. Nel paese mesopotamico, cioè in Iraq, gli Stati Uniti e i loro partner si mossero invece dopo aver preventivamente giustificato l’intervento militare con una clamorosa menzogna: le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, che in realtà quelle armi non aveva; tutti ne erano perfettamente al corrente, visto che gli arsenali iracheni erano stati anche quelli riempiti dagli occidentali per convincere il ‘rais’ ad attaccare, come rovinosamente fece, l’Iran di Khomeini e della minacciosa rivoluzione islamica. Ma, anche qui, non poteva bastare. Erano saltati fuori (in realtà dopo lunghe elaborazioni teoriche) i cosiddetti ‘neo-con’, i Cheney i Rumsfeld i Wolfowitz i Pipes, che avevano avuto gioco facile nel consigliare all’instabile e debole Bush junior il progetto di un ‘grande Medio Oriente’ da democratizzare, naturalmente e di nuovo sulla punta delle baionette (altro che democrazia pacificamente esportabile).
Risultato: la frantumazione del fragile mosaico irakeno, sciiti sunniti curdi. Altro risultato: l’accresciuta influenza dell’Iran nella terra dei due grandi fiumi, Eufrate e Tigri. Poi, risultato anche peggiore: la nascita dello Stato islamico (o Daesh), proclamato nell’estate 2014 dal califfo Al Baghdadi, espressione, anche, della rivincita dei sunniti saddamisti umiliati, convinti di poter piegare anche il regime sciita-siriano degli Assad. E siamo, altro risultato indiretto dell’11 settembre, all’innesco dello scontro fra le due componenti del mondo musulmano, guidate da Arabia Saudita e Iran. Sconvolgimento regionale che catapulterà verso i confini di un’Europa smarrita e impreparata un’ondata di fuggitivi, profughi poi fermati solo dai miliardi messi da Bruxelles nelle casse del neo-sultano turco Erdogan, gonfiandone le ambizioni di espansionismo neo-ottomano e di guida alternativa dei ‘credenti’.
Diversa è la tesi statunitense: ed è quella che in ogni caso il terrorismo è stato battuto, o comunque tenuto lontano dai confini USA. Argomento discutibile. L’America ha pagato, e non poco. A cominciare da norme interne di sicurezza che hanno superato la linea rossa delle regole democratiche: i poteri speciali ai dispositivi di vigilanza, il controllo accresciuto sugli stranieri, l’aperta ostilità nei confronti delle comunità musulmane, di cui si servì Trump per una delle sue crociate più vergognose. Poi, Guantanamo, lontano da casa, carcere di massima sicurezza su suolo cubano usurpato, governato da regole e (rari) processi militari, centinaia di detenuti islamici trasferiti da tutto il mondo nella totale assenza di ogni diritto, anche quello di non subire torture, pagina di autentica ignominia per quella che si considera la patria delle libertà. Ancora: attentati interni e stragi dove spesso ha prevalso la motivazione di ispirazione religiosa. Infine: non sono forse un prezzo altissimo i 7.300 marines lasciati sul terreno in Afghanistan e in Iraq (niente a confronto delle centinaia di migliaia di vittime locali), più i 3.000 miliardi di dollari andati in fumo nelle due fallite campagne militari?
E l’Europa, non ha forse pagato? Non sono stati anche i veleni prodotti dal post-11 settembre ad alimentare gli attentati terroristici nelle città del vecchio continente, nelle infelici periferie delle terze generazioni, da Parigi a Bruxelles, dove più forte è stato il richiamo di una “guerra santa” che ha spesso catturato giovani musulmani sbandati, piccoli criminali, disadattati e spesso socialmente esclusi che hanno avuto in carcere il loro reclutamento jihadista? Prima strutturato, organizzato e pianificato; ora terrorismo ‘ambientale’, dove non c’è bisogno di ordini e gerarchie, ma basta lo stimolo fanatico dell’emulazione per produrre il fenomeno dei ‘lupi solitari’.
Molto altro si è mosso nelle viscere del ventennio inaugurato da quello che venne definito l’‘impensabile’. Né possiamo affermare che la vergognosa fuga da Kabul chiuda un ciclo, segni davvero il punto finale, sia un netto spartiacque. Può invece aprire scenari di nuovi confronti, di guerre per procura, di lotte d’influenza anche sullo scacchiere asiatico su cui doveva imporsi la rivincita e la punizione dell’Occidente, e che si è trasformato in un nuovo recinto del vigoroso corpo a corpo geo-strategico di questo primo turbolento passaggio del ventunesimo secolo.
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