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La guerra non è un gioco, anche se in gioco c’è il nostro destino. Comune
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Di Gino Ceschina
Metti di chiamarti Piotr.
Di essere russo.
Di Saransk, tipo.
Metti di essere un impiegato.
Metti un contabile.
Hai una moglie, due figli, 46 anni.
Una casa, un’auto, ipoteca, leasing.
Tifi il Traktor. Ti piace la vodka, e i golubtsy la domenica.
Te ne frega qualcosa dell’Ucraina? Che sia o non sia parte del tuo paese? A Kiev ci sei stato in vacanza, e anche a Odessa.
La prossima volta che ci andrai magari saranno russe. Magari saranno filo-russe.
Ma le gambe delle ragazze che guarderai saranno diverse?
Adesso metti di chiamarti Sacha.
Di avere 21 anni.
E di essere dentro ad un T-90.
Ti dicono di andare, e vai.
Horodnja. Mai sentita.
Te sei di Plesek.
Tuo papà ha il cancro.
Ti dicono di sparare e spari.
Ma poi, dopo, ti domandi perché spari.
Ora ti chiami Rip, e sei di New Orleans.
Ti piace Mina e non sai se provarci con lei.
Hai 16 anni e giochi a League of Legends.
E senti alla radio che l’Ucraina chiedeva di entrare nella Nato.
Poi, la pubblicità dei twinkies.
Adesso ti chiami Olga.
Sei in una stazione della metropolitana di Kiev.
Hai 34 anni e un bimbo di 5 che chiede dov’è il suo papà.
E pensi all’ultimo bacio che gli hai dato, che aveva il kalashnikov in mano.
E pensi a Piotr, Sasha, Rip.
O a gente come loro.
Che hanno i loro santissimi cazzi.
Che la vita è già complicata di suo.
E a qualcuno interessa la bandierina da mettere sopra l’Ucraina.
Come se fosse un Risiko.
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