Risveglio
Frammenti di un’alba, in mezzo al bianco di monti ed iceberg in Groenlandia
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Frammenti di un’alba, in mezzo al bianco di monti ed iceberg in Groenlandia
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Di Flavio Stroppini, scrittore, poeta e regista teatrale
Dopo un mese, ho il freddo sotto le palpebre. Il mattino, quando mi sveglio nella cuccetta di tribordo non riscaldata del Manguier, per qualche minuto mi riapproprio delle parti del corpo. Torace, gambe, braccia, piedi, collo e, nonostante il sacco a pelo termico le tenga ben al riparo dal freddo, le mani sono le penultime a obbedire. Alla fine, arrivano gli occhi, che dopo una notte di sogni abitati dal mescolarsi dei ricordi delle giornate precedenti, sembrano vogliano sequestrarmi lì, in quello stato di quiete ancestrale tra il sonno e la veglia. Da una decina di giorni ho iniziato a immaginare che sia a causa di tutto questo nuovo mondo che da un mese mi ospita: l’Artico.
Poi mi muovo. Accendo la lampada frontale, in colore rosso per non disturbare le altre cinque cuccette. Infilo uno strato di abiti raffreddati dalla notte, la berretta, una giacca e salgo le ripide scalette che mi portano in coperta. Apro il portellone e, quasi sempre, una ventata gelida mi toglie il respiro. Il termometro segna -24, con il vento la temperatura percepita sarà di -30. Come quasi tutti i giorni.
Spalanco la porticina in legno che porta a prua e osservo. Sono su di un piccolo ex rimorchiatore francese di 27 metri bloccato dalla banchisa in un fiordo groenlandese attorno al 68esimo Nord. Cerco di non toccare le balaustre per evitare scottature da freddo, non sempre me ne ricordo. Poi di evitare di scivolare sul ponte ghiacciato, non sempre ci riesco.
Sbarco sul mare e giro attorno alla nave. Un centinaio di metri oltre alla prua il posto dove pisciare e cacare. Poi rientro.
Prima di risalire vado oltre la prua, dove taglio con un machete arrugginito un mattone di neve; lo metto in un catino di plastica nero e lo trasporto fino al portellone della zona comune. All’incirca 24 metri quadrati: un tavolo da sei, una cassapanca, qualche sedia, divano, una cucina e qualche armadio e ripiano dove poter lavorare, una piccola libreria e due stufe a legna. Metto la neve a sciogliere in un pentolone.
Poi esco di nuovo sul ponte e prendo una mezza dozzina di pezzi di legna duri come il sasso. Rientro e con delle scaglie preparate la sera prima accendo le stufe a legna. Con le mani ancora non propriamente ridestate ci metto un po’. Apro la bombola del gas e accendo il fornello. Preparo il caffè. Prendo uno sgabello blu e mi accoccolo accanto a una stufa, aspettando che lentamente aumenti i 6 gradi del locale e che riscaldi me.
Sono quasi sempre il primo a svegliarmi sul Manguier ed è uno dei momenti che più mi piacciono. C’è solo il suono del vento che batte sui teli bianchi che ricoprono una parte della barca arancione per proteggerla dalle intemperie; il legno che scoppia; il ghiaccio che inizia a sciogliersi nel pentolone.
Il caffè gorgoglia, lo metto nel termos e subito preparo un’altra caffettiera. Le mani che si scottano mentre la svito ancora bollente mi riportano in vita.
Cerco una candela e la accendo. Come da tradizione groenlandese niente luci artificiali il primo mattino, per ricordare chi non è più con noi.
Mi verso una tazza di caffè e mi rimetto davanti alla stufa. Ho cinque minuti per pensare ai sogni notturni, al luogo esplorato ieri e a quello che voglio raggiungere oggi. Perché dopo la giornata diventa un continuo presente. Ottimizzare gli sforzi nelle bufere; testare il ghiaccio con il tuk -una sorta di arpione- sulle faglie che le maree creano al confine tra banchisa e terraferma; non perdere l’equilibrio durante i whiteout -quei momenti dove tutto diventa bianco e il sopra e sotto si confondono, scegliere i percorsi migliori tra un punto e l’altro, non temere i miraggi (che possono essere persone che ti inseguono, o orsi, o lupi, o quel che la tua mente fabbrica reagendo a questo infinito); camminare sotto le aurore boreali dimenticandosi di guardare dove si mettono i piedi. Non si può pensare ad altro mentre si è fuori. I cinque minuti diventano il mio modo per fare i conti con ieri e con quello che mi aspetta prima di addormentarmi questa notte.
Sono in Groenlandia per una particolare residenza artistica. Vivere lontani e disconnessi dal mondo in un territorio estremo. Registro i suoni dei venti e cerco di mappare a modo mio quello che mi attornia, per sei o sette ore al giorno. La sera ascolto e scrivo. Di giorno esploro il territorio. Salgo colline e montagne, percorro valli e attraverso la banchisa in più punti. Cammino sorprendendomi in continuazione per la devastante e rigida bellezza di questo Nord. Sono un alieno che, piccolo, lascia le sue tracce tra quelle di volpi e conigli artici.
Oggi andrò alla collina 23 (ho dato dei numeri a colline e montagne) e da lì voglio proseguire verso Est fino agli iceberg, poi seguire la terraferma fin dove riesco prima delle 15 (l’ora di invertire il cammino e tornare). Mangerò del liofilizzato, devo scaldare l’acqua per il termos.
Ieri ho trovato una grande pozza di acqua libera, come un laghetto, dovrò tornarci per vedere se affiorano narvali o foche. Devono esserci perché ho visto dei bossoli, rossi, di fucile.
La seconda caffettiera chiama. Prendo dell’acqua e del latte, un poco di zucchero, un paio di manciate di uva secca e dell’avena. Preparo il porridge per gli altri.
Sento i primi passi sul ponte: sarà Phil, il capitano. Aggiungo della legna alle stufe. Tra poco qua sarà molto affollato, ognuno con la sua ritualità. Qualche chiacchiera e poi mi preparerò per uscire.
Io dirò “Vado a sud-est”.
Sull’esperienza di viaggio e di scrittura compiuta in Groenlandia, Flavio Stroppini ha pubblicato un “audiodiario artico” che si può ascoltare qui.
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