“Sono uomo, niente di ciò che è umano mi è estraneo”
L’affermazione di Publio Terenzio Afro – commediografo berbero di lingua latina, del II sec. a.C. – e la tragedia di Gaza
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L’affermazione di Publio Terenzio Afro – commediografo berbero di lingua latina, del II sec. a.C. – e la tragedia di Gaza
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L’affermazione di Publio Terenzio Afro – commediografo berbero di lingua latina, del II sec. a.C. – e la tragedia di Gaza
I numeri sono cinicamente spaventosi e impietosi: alle 1400 persone (in gran parte civili ebrei) uccise dai miliziani di Hamas il 7 ottobre, la reazione israeliana a quell’atroce mattanza ha provocato sinora oltre 11’000 morti nel campo palestinese (cifra sostanzialmente certificata anche da fonti dell’intelligence statunitense) , di cui poco meno della metà bambini e adolescenti, e centinaia di migliaia di feriti: lacerati, smembrati, mutilati. La stragrande maggioranza civili inermi: neonati, bimbi, ragazzi, donne, anziani, malati e disabili Mentre la valanga ininterrotta (giorno e notte) di bombe e missili non ha risparmiato chiese, moschee, ospedali, campi profughi, centri culturali, scuole dell’Onu.
Non c’è da stupirsi se a seguito di una simile reazione, tanto smisurata e assetata di vendetta con la mobilitazione in massa di uno degli eserciti più attrezzati in sistemi d’armi e tecnologicamente avanzati, si è assistito in fretta alla perdita del credito di simpatia e di empatia suscitate dallo sdegno per l’attacco di Hamas, sostituito da un forte senso di disagio, malessere, finanche fastidio, irritazione e avversione.
Ciò ancora più accentuato dall’atteggiamento delle autorità governative e dai vertici dell’esercito di Tel Aviv, che hanno dimostrato una protervia inscalfibile al cospetto delle innumerevoli richieste di un cessate il fuoco, o perlomeno di pause umanitarie, per soccorrere una popolazione di oltre due milioni di persone già in precedenza blindata militarmente dentro un fazzoletto, anzi una striscia di terra cui già venivano erogati con parsimonia e sotto tutela beni energetici e di prima necessità: acqua, elettricità, cibo, medicine.
Nessuno e in alcun modo è riuscito a fermare la possente macchina da guerra alimentata dalla cieca e bramosa voglia dei suoi vertici di vendetta per lavare l’onta subita, ufficialmente in nome della propria sicurezza e sopravvivenza. Di conseguenza, l’unico scopo intravisto, come reazione immediata, ancor prima di pensare agli oltre 200 ostaggi nelle mani di Hamas, è stato ed è infliggere una sconfitta epocale al nemico giurato, mirando all’annientamento totale dello stesso, costi quel che costi, con la messa in campo di una ferocia e di una spietatezza cieca e rancorosa, che né il presidente Biden, né il suo ministro degli esteri Blinken, e nemmeno il Papa sono riusciti ad attenuare, e tantomeno a fermare.
Muro contro muro, violenza contro violenza, odio contro odio … siamo ancora rimasti alla legge del taglione. Anche chi si rifà ai dettami o ai dogmi della ‘religione’, sembra obliterare il portato del Nuovo Testamento con il messaggio messianico ivi contenuto. C’è chi non esita a parlare di un’estensione della “Pandemia di odio” nel mondo.
Blinken diventa patetico quando afferma che ogni volta che vede un bambino estratto dalle macerie provocate dalle bombe su Gaza pensa ai propri figli e non può che rattristarsi. Ma come fare astrazione del fatto che quelle bombe, gli aerei, i carrarmati e buona parte delle armi impiegate da Tsahal sono anche di provenienza statunitense, mentre la prima reazione di Biden dopo il 7 ottobre è stata di inviare nell’est del Mediterraneo una immensa portaerei e navi da guerra, nonché garantire il massimo sostegno militare e politico al governo di Netanyahu? Senza dimenticare che per decenni Washington ha bloccato o reso inefficaci la trentina di risoluzioni emanate dall’Onu, volte a sanzionare trasgressioni al diritto internazionale da parte di Israele e a riconoscere i legittimi diritti del popolo palestinese.
Il paradigma adottato è sempre lo stesso: la principale risposta che giunge in queste circostanze è innanzitutto di tipo ‘manu militari’. Malgrado quanto è successo dopo l’attentato alle Torri Gemelle, l’11 settembre del 2001, e con il monito dello stesso Biden a Netanyahu di non ripetere gli stessi errori commessi poi dagli Stati Uniti, con azioni sconsiderate e di forza eccessiva: ma il primo non è riuscito finora a convincere il secondo a ridurre la sua furia vendicativa, cercando di distinguere fra Hamas e la popolazione civile inerme.
La cosa assurda è essere ancora una volta in queste condizioni dopo tutte le volte che le abbiamo vissute e siamo stati testimoni di tali strade mortifere imboccate a scadenze regolari. Al di là delle tre ondate di Intifada (1987-1993; 2000-2005; 2015-2016) con i rispettivi pesantissimi bilanci di morti e feriti, solo per citarne alcune, ricordiamo fra le più tristemente note le operazioni militari già intraprese dall’esercito israeliano negli scorsi anni contro la Striscia di Gaza: “Piombo Fuso” dicembre 2008-gennaio 2009; “Colonna di Nuvola” novembre 2012; “Margine Protettivo” luglio-agosto 2014; “Guardiano delle Mura” maggio 2022, cui ne vanno aggiunte molte altre di minore intensità sia a Gaza sia in Cisgiordania.
Ad azioni di rivolta a una certa oppressione o a una situazione di annichilimento esistenziale (pensiamo alle tre generazioni rinchiuse in un ghetto senza sbocchi se non quello di un’assistenza permanente), fanno seguito a specchio immancabili punizioni con abbattimento di abitazioni dei “terroristi” e dei loro familiari, bombardamenti a tappeto per distruggere infrastrutture vitali in modo da fiaccare ulteriormente l’esistenza della gente nella Striscia, rastrellamenti aggressivi e arresti massicci, pesanti condizioni detentive concernenti anche numerosi minori, protezione di coloni aggressivi nei confronti della popolazione araba: in una catena infinita di frustrazione, risentimento, odio, negazione dell’umanità dell’altro. Si viene così a generare una coazione a ripetere, per cui ci troviamo costantemente a raccogliere i cocci, a sgombrare i detriti, ad eliminare le scorie (si considerino, ad esempio, gli strascichi ambientali delle bombe al fosforo), per ricostruire sulle macerie nuovi edifici, infrastrutture e servizi pubblici, con i finanziamenti delle organizzazioni internazionali (peraltro sempre meno generosi) e con il prezioso aiuto delle diverse ONG.
Mi fa un po’ specie citarlo, ma persino Giulio Andreotti, nel 2006, subito dopo la seconda Intifada, così si espresse a proposito delle condizioni in cui versavano i palestinesi: “Chiunque sarebbe un terrorista dopo 50 anni in un campo di concentramento e con i figli senza futuro”.
Siamo confrontati, in pratica, con lo sforzo di Sisifo, per cui appena si apre uno spiraglio di speranza in uno sviluppo o in una via di uscita, arriva qualcuno che la boicotta: in questo, paradossalmente (ma non poi tanto) Hamas e il governo estremista di Netanyahu sembrano alleati nel loro desiderio di sabotare qualsiasi tentativo orientato alla pace o a una prospettiva di convivenza decente sulla stessa terra.
Come detto, chi conserva un barlume di sensibilità e solidarietà umana non può rimanere insensibile alla strage del 7 ottobre ma anche, se non di più, al cospetto della violenza esercitata sulla Striscia di Gaza, con la gente comune ormai allo stremo delle forze e delle speranze non dico di un minimo di futuro, ma della semplice sopravvivenza. Lancinanti le testimonianze delle famiglie che si separano: un genitore con una parte dei figli, l’altro con il resto della prole per avere più possibilità che qualcuno si salvi, con tutti quanti al polso un identico bracciale di fili coloranti e con il nome inciso su un braccio, così da sapere chi fosse estratto morto dalle macerie.
Per questo, in una società mediatizzata come la nostra, le immagini e le narrazioni cui siamo ampiamenti esposti (fatta la tara di fake news e strumentalizzazioni ideologiche provenienti da una parte e dall’altra), non possono che produrre reazioni e avere conseguenze anche assai gravi. Le parole, come si è ripetuto spesso, possono pesare come macigni, ma ancor più le immagini, oggi, possono lasciare segni profondi e non di rado cagionare azioni sconsiderate e alquanto perniciose.
Il governo israeliano non è responsabile solo nei confronti dei propri elettori, ma anche di tutti gli ebrei sparsi per il mondo, che stanno soffrendo e subendo l’avversione che vieppiù si diffonde nelle opinioni pubbliche dei vari paesi, unitamente alle sempre più numerose aggressioni di stampo anche antisemita manifestatesi a tutte le latitudini ai danni di persone appartenenti alla cultura ebraica.
Così come occorre precisare che Hamas non rappresenta e non è assimilabile alla Palestina, ai palestinesi e nemmeno all’Islam (lo affermano, fra gli altri, taluni esponenti della comunità arabo-beduina di matrice musulmana che vive a ridosso della Striscia, anch’essa colpita e punita nell’attacco del 7 ottobre per le “connivenze” con il nemico), va affermata con la stessa chiarezza e nettezza che Netanyahu e il suo governo di estrema destra non sono identificabili con Israele e ancor meno con la comunità ebraica nel suo complesso.
Pertanto, se da un lato, è un dovere etico, a parer mio, difendere, sostenere e ‘parteggiare’ per i gazawi che stanno soffrendo le pene dell’inferno – e non solo dall’inizio di ottobre ma da anni, anzi da decenni (“Il popolo palestinese vive in Cisgiordania in una prigione a cielo aperto e a Gaza è sigillato in una scatola di sardine, in una condizione infernale”, ha detto Moni Ovadia), dall’altro lato penso sia altrettanto doveroso denunciare, rigettare e opporsi a qualsiasi oltraggio, sfregio, vandalismo di matrice antisemita.
Va sottolineato, infatti, come nella società civile israeliana, nelle forze politiche non allineate con la politica governativa, nella cerchia di intellettuali ed attivisti di origine ebraica, nelle associazioni pacifiste e volte al promovimento del dialogo e della pace, presso la stampa non assoggettata nei confronti dell’attuale regime vi sono voci coraggiose e indomite che si battono per la giustizia sociale e per creare le condizioni di una convivenza paritaria fra israeliani e palestinesi. Nella comunità israelita non mancano dunque posizioni critiche e disposte al dialogo con il “nemico”: non visto come tale, che non si trincerano dietro la grande tragedia della Shoah per negare qualsiasi voce di dissenso rispetto a scelte discutibili delle autorità di Tel Aviv. Per esempio, lo storico e politologo statunitense Norman G. Finkelstein, il quale vide coinvolta tutta la sua famiglia nella Shoah, ha dichiarato più volte che la stessa non può costituire un alibi per le violenze che Israele perpetra ai danni dei palestinesi. Per non parlare del grande linguista Noam Chomsky, fervido oppositore del sionismo ebraico. Gad Lerner, dal canto suo, afferma: “Sono 56 anni che Israele occupa territori di milioni di Palestinesi e si illude di poter custodire una democrazia domestica, negando nello stesso tempo l’autodeterminazione del vicino di casa”, e aggiunge: “Come è giusto utilizzare il termine ‘pogrom’ per quanto è stato perpetrato da Hamas il 7 ottobre ai danni di migliaia di israeliani, così utilizzo scientemente questo termine per dire che nell’ultimo anno, con la connivenza di questo governo israeliano di estrema destra, dei piccoli ‘pogrom’ sono stati commessi dai coloni della Cisgiordania”. Il già menzionato Moni Ovadia, è ancora più esplicito e netto: “La situazione del popolo palestinese è stata fatta marcire nella sua ferocia per decenni e decenni; non ci si può solo fermare sull’episodio, per quanto violento e terribile [della mattanza di Hamas], bisogna capire che da parte israeliana è stato costruito un autentico brodo di coltura della disperazione terrificante che non può che produrre frutti avvelenati. (…) Il popolo palestinese vive in Cisgiordania in una prigione a cielo aperto e a Gaza è sigillato in una scatola di sardine, in una condizione infernale. Parliamo di 75 anni per Gaza e di 56 per la Cisgiordania. C’è un popolo che vive in prigione e in una condizione infernale, e questo scatena la rabbia (…) Un popolo, ripeto, che da decenni e decenni subisce una condizione di segregazione, oppressione, vessazione interminabile”.
Ma attenzione, tutte queste posizioni non costituiscono affatto – come sostengono i detrattori – un tradimento e tantomeno la negazione del diritto di Israele ad esistere e a difendersi, ma sono volte ad affermare il nucleo più autentico dell’ebraismo. Ovadia stesso dichiara: “Io ci tengo molto al mio ebraismo e mi possono dire quello che vogliono, però io dall’ebraismo ho imparato che si sta con l’oppresso, mai con l’oppressore, in nessun caso”. Proprio qui, forse, consiste il significato della designazione del popolo ebraico a “popolo eletto da Dio” citato nelle sacre scritture: cioè, non tanto perché superiore in assoluto a tutti gli altri, bensì in quanto, proprio perché nomade su questa terra e quindi destinato a una continua diaspora, migrazione e persecuzione, è privilegiato da quel Signore misericordioso vicino agli ultimi e a chi soffre. Il senso dell’elezione divina, dunque, non implica una superiorità etnica o morale degli ebrei, ma una responsabilità e una missione di testimonianza e di servizio a Dio e all’umanità, nel segno della misericordia e della fratellanza.
Le re-azioni delle autorità israeliane sono di ben altra natura.
Anche se fosse vero che sotto i quartieri residenziali e gli ospedali di Gaza ci siano i cunicoli e i rifugi di Hamas (tenuto conto della grande sproporzione delle forse in campo, non è sorprendente che il “nemico”, in tutti questi anni, si sia trincerato nel sottosuolo … scavandosi probabilmente la fossa) si giustifica un bombardamento a tappeto di settimane, che ha sventrato interi palazzi abitati da gente comune, raso al suolo interi quartieri, facendo terra bruciata tutt’attorno? Ho l’impressione che l’obiettivo principale per sedare l’incontenibile rabbia vendicativa di ‘Bibi’ e dei suoi accoliti sia l’eliminazione del capo militare di Hamas nella Striscia: Yahya Sinwar detto Abu Ibrahim (cresciuto a Khan Younis nella zona più derelitta di Gaza e rimasto per 22 anni rinchiuso in un carcere israeliano; definito da Netanyahu “un morto che cammina”, paragonandolo a “un piccolo Hitler”) da esibire come trofeo a dimostrazione simbolica della “vittoria”. Di Pirro, peraltro.
Allora, magari, ci si sentirà “ripagati” da questo sforzo bellico, il cui bilancio, come sappiamo, è spaventoso e che per intanto non è finito: la Striscia rimane blindata e i civili continuano a morire anche al Sud della stessa, dove i gazawi sono stati spinti con la “promessa” che le armi lì tacessero.
Insopportabile l’orrore provocato dall’assedio degli ospedali, in particolare di Al Shifa, il principale nosocomio di Gaza City, dove oltre ai pazienti e al personale curante hanno trovato rifugio decine di migliaia di rifugiati. Mentre le partorienti affrontano il taglio cesareo e i feriti e i mutilati vengono trattati senza alcun tipo di anestesia a causa della mancanza di farmaci, i neonati muoiono perché le apparecchiature (incubatrici e respiratori) sono fuori uso per mancanza di elettricità, carburante e fonti energetiche. Medici e personale sanitario sono ormai oltre lo stremo, prodigandosi in ogni modo per far fronte ad una situazione inverosimile, in un mondo dove ci sentiamo talmente progrediti, intelligenti e illuminati da aver inventato l’intelligenza artificiale.
Ebbene, per me, sono loro i veri eroi: medici, infermieri e tutti gli assistenti ed operatori che sono lì dentro a curare, consolare, spendersi fino allo sfinimento. A quante atrocità dovremo ancora assistere per fermare questa carneficina e liberare dall’assedio un’intera popolazione consentendo un vero soccorso umanitario? Ma non facciamoci illusioni: un giorno tutta questa furia terminerà e tutti noi torneremo alla nostra “normalità” (per noi, ovviamente, non per l’inferno di Gaza che continuerà moltiplicato per il rancore e l’odio accumulati nella circostanza e che si sedimenteranno nelle generazioni future), lasciando i Palestinesi al loro destino, come abbiamo fatto tante volte: Libia, Iraq, Siria, Afghanistan, Nagorno-Karabakh, solo per citare alcuni esempi.
Le cancellerie occidentali, i paesi arabi e le organizzazioni internazionali si laveranno la coscienza con stanziamenti finanziari e piani per la ricostruzione, dimenticandosi della loro disattenzione decennale nel lasciare imputridire la deleteria situazione dei territori occupai da Israele.
Concludo con le parole di Ilan Pappé, storico israeliano e autore del libro La prigione più grande del mondo (Fazi 2022): “Israele continuerà a essere uno stato di apartheid, come dichiarato da varie organizzazioni per i diritti umani, comunque si evolva la situazione a Gaza. I palestinesi non scompariranno e continueranno la loro lotta di liberazione con molte società civili schierate al loro fianco, mentre i loro governi sostengono Israele e gli garantiscono un’immunità eccezionale. La via d’uscita rimane la stessa: un cambio di regime in Israele che dia uguali diritti a tutti dal fiume Giordano al mar Mediterraneo e permetta il ritorno dei rifugiati palestinesi. Altrimenti il ciclo di spargimenti di sangue sarà senza fine”.
Nell’immagine: fotografia di Tom Hurndall, fotografo inglese ucciso all’età di 21 anni da un cecchino israeliano a Gaza nel 2003, mentre cercava di salvare due ragazzi da uno scontro a fuoco
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