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Strategia per la pace
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Strategia per la pace

In Ucraina è fondamentale spegnere il fuoco subito, cominciando con l’immediata applicazione del principio di ‘protezione delle città indifese’ - Di Ferruccio d’Ambrogio


Redazione
Redazione
Strategia per la pace
• 2 Aprile 2022 – Redazione

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

Stragi e distruzioni: l’orrore in presa diretta. Gli interessi geopolitici divergenti tra la coalizione di stati USA-UE e la Russia sono riesplosi in “Ucraina”. Così 23 anni dopo l’aggressione della Nato alla Serbia, l’Europa è nuovamente teatro di una guerra. Questa volta voluta dalla Russia in quell’Ucraina in cui sul Tibisco v’è “un obelisco, austroungarico che segnava il baricentro di terraferma tra l’Atlantico e gli Urali, il Mediterraneo e il Mare di Barents” scrive Paolo Rumiz, giornalista, inviato anche in Afganistan all’inizio dell’occupazione USA, che nel 2008 fece un viaggio di 6000 km con mezzi pubblici che lo portò dalla Kirkens (Norvegia) sul confine russo zigzagando lungo la linea di confine tra Russia e i paesi europei confinanti, raggiungendo Odessa. “Già allora – prosegue – si sapeva che il Mittel Europa non sta affatto nei caffé viennesi, ma molto più a oriente, anche di Budapest e Varsavia. Il cuore batte qui, centinaia di km oltre l’ex Cortina di ferro[1]”.

“Chiunque ha un briciolo di memoria – ammonisce Rumiz – sa che la fascia di territorio fra i Balcani e il Baltico è anche una linea di faglia altamente infiammabile, dove Est e Ovest non hanno ancora risolto le loro pretese imperiali e dove il fango ha inghiottito sessanta milioni di vite in una successione di tragedie lunga un secolo. Non possiamo consentire che si incendi ancora”. Ed invece di soffocarlo subito prima che divampi in modo irreparabile “- come indicava qui Marco Revelli – lo attizziamo, facendo affluire disordinatamente armi letali a milizie o gruppi non controllati né controllabili, che potrebbero usarle per sabotare possibili accordi e prolungare le ostilità”.

Assenza di un’autorità riconosciuta a livello internazionale

I conflitti sono parte integrante del mondo vivente a cui apparteniamo; in quello umano segnalano: incompatibilità, interessi, priorità diverse. La capacità di risolverli in modo pacifico – ovvero senza soprusi e violenze – è un surplus significativo e provato. Seppur esista il diritto, non esiste, contrariamente a quanto avviene a livello dei singoli stati, federazioni o unione di Stati, un’autorità superiore che possa sancire chi abbia ragione o meno in caso di divergenza, assicurandone l’applicazione.

Le Nazioni Unite, create dopo la seconda guerra mondiale proprio per assicurare “il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”, non lo sono in quanto le decisioni dell’assemblea devono essere ratificate dal Consiglio di sicurezza composta da 15 membri di cui 5 (Cina, Francia, Regno unito, Russia e Stati uniti) sono membri permanenti e hanno diritto di veto. In concreto: basta il veto di uno dei 5 membri permanenti per inficiare le decisioni e/o le risoluzioni dell’Assemblea. Ciò che è avvenuto e avviene frequentemente.

Di conseguenza rimangono due opzioni contrastanti:
lo scontro – vince il più forte; nel caso dell’Ucraina sanzioni ed isolamento economico della Russia d’un lato e rafforzamento della resistenza Ucraina con la consegna di nuove e più efficaci armi”;
la costruzione della pace che sostituisca il conflitto armato. (È l’opzione chiesta a gran voce sulle piazze di moltissime città da un ampio movimento di persone, snobbato o non considerato dalla politica).

I gravi e responsabili omissis della politica

“È vietato di attaccare o di bombardare, con qualsiasi mezzo, città, villaggi, abitazioni o edifici che non siano difesi” recita l’art.25 della “Convenzione dell’Aja sulla guerra terrestre” del 1907. Articolo attivato durante la seconda guerra mondiale per preservare alcune città dalla rappresaglia nazista (fra cui Rotterdam, Parigi, Bruxelles, Belgrado, Roma, Firenze, Atene).

Il primo protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1949, aggiornato nel 1977 precisa che “tutti i combattenti così come le armi mobili e l’equipaggiamento militare mobile devono essere trasferiti” dalle città” e che “Le autorità e la popolazione non devono commettere atti ostili. Infine, nulla può essere fatto per sostenere atti di guerra”.

Purtroppo come fa osservare Norman Paech, avvocato e professore di scienze politiche e diritto pubblico all’Università di Amburgo, ”il diritto internazionale umanitario delle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra è andato regolarmente perso nei combattimenti”, come avvenuto nelle guerre in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, dove il principio di “città non difese” non è stato osservato. Addirittura, diversi crimini di guerra sono stati perseguiti nella guerra jugoslava e lì, come sottolinea Paech, “principalmente solo contro serbi, croati, albanesi del Kosovo e bosniaci”; “la parte degli aggressori, la NATO, è rimasta indenne. Era, dopo tutto, la loro corte”.

Eppure il concetto di “luoghi non difesi” non è stato cancellato dal diritto internazionale umanitario: è stato volontariamente dimenticato. E continua ad essere dimenticato in Ucraina, mentre tardano a concretizzarsi le condizioni per un compromesso strategico tra Stati Uniti-NATO e Russia.

Che fare?

Concretamente nel caso della guerra in Ucraina occorre rivendicare senza indugio l’attivazione immediata del “principio delle città indifese”, che implica la proibizione di interventi armati su città non difese, da cui deve sparire, ovviamente, qualsiasi arma. Non v’è contro-argomento che impedisca di farlo: tutti gli Stati devono esigerlo, invece di donare armi e/o glorificare la resistenza armata dei civili contro l’aggressore. Qui si tratta di salvare vite umane. Purtroppo, a parte il Papa, nessun governante occidentale, Svizzera compresa, sembra disposto promuoverlo.

L’imperativo è spegnere l’incendio subito: anche se, come ricorda Paech, “nella logica della guerra, cedere la “città aperta” può essere considerata vigliaccheria di fronte al nemico, nella logica della pace è invece prudenza di fronte a un avversario con il quale si deve venire a patti in forma compatibile anche dopo la guerra, per il bene della popolazione”. Senza tregua l’unica certezza per gli abitanti delle città assediate sarà: sacrificio e sofferenza, fuga o morte, e finito il conflitto: rancori, profonde ferite a livello psicologico. Gli “Ucraini- ribadisce Paech- hanno solo la scelta tra l’occupazione russa in una città che è ancora per metà intatta o in una che in gran parte sarà distrutta”.

Costruire la pace

Diciamocelo forte e chiaro, senza maschera: il modello socio-economico di cui la politica è responsabile oltre alle disuguaglianze crescenti, alla devastazione ambientale, sta creando a tutti i livelli conflitti di interesse tra Stati nazione e blocchi, sempre più micidiali L’unica strategia per affrontarli è quella della pace. La pace, come la neutralità o la democrazia, non esiste in astratto o per decreto: è frutto di una continua pratica, che sappia coinvolgere tutti gli attori, volta a negare il ricorso di forza e violenza. Dirsi pacifista non vuol dire nulla: ciò che conta è agire da pacifista.

Non sono pensieri nuovi, anzi! Negli anni 20 del secolo scorso Gandhi fu promotore di un’azione politica non violenta, di assenza di nuocere o di uccidere per sbarazzarsi dalle catene del colonialismo. Nei successivi Anni Sessanta prese vita in Occidente la Scuola scandinava della “peace research”. I cui nomi più noti sono J. Galtung -fondatore dell’irenologia (la scienza della pace: lo studio delle cause e presupposti della pace) che nel 1960 fondò a Oslo l’International Peace Research Institute, e Alva Reimer Myrdal (Premio Nobel per la pace nel 1982) che nel 1966 fondò l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace a Stoccolma. Nel 1981 Olaf Palme, primo ministro svedese inspirandosi a tali idee, propose con Willy Brand la creazione di una fascia cuscinetto demilitarizzata tra est e ovest. Palme non ebbe tempo di proseguire il suo intento: fu assassinato ad inizio nel febbraio 1982.

Epilogo

Questa guerra, come tutte le guerre, finirà presto o tardi. Più durerà più lo sconquasso materiale e umano sarà micidiale e le conseguenze nelle relazioni tra popoli e anche membri di una stessa nazione che hanno vissuto fianco a fianco, poi divisi da frontiere generate da interessi supremi della geo-politica, saranno devastanti.

La responsabilità dei governi Europei è enorme: un’UE senza linea in fatto di politica estera, ognuno a far di proprio conto, ligia però a seguire la NATO nelle sue iniziative.

Una Svizzera incapace di giocare il ruolo di nazione neutrale che propugni con tenacia l’osservanza dei principi del diritto internazionale riguardanti la salvaguardia e la protezione delle popolazioni civili sottoscritti a Ginevra.

Al termine, parafrasando Brecht, ci saranno vinti e vincitori, tra i vinti farà la fame la povera gente, fra i vincitori farà la fame la povera gente”.

ETRE PACIFISTE, di Jean Rostand

Etre pacifiste c’est écouter avec méfiance ceux qui prétendent quel les massacres d’aujourd’hui pourront empêcher d’autres massacres plus important demain;
Etre pacifiste c’est, sans méconnaitre les droits de l’avenir, donner la priorité à la vie des vivants;
Etre pacifiste c’est vouloir la paix même si la paix n’a pas tout à fait la même couleur qu’on préfère;
Etre pacifiste c’est lui rendre grâce alors même que toutes nos passions ne trouvent pas leur compte;
Etre pacifiste c’est admettre que l’intérêt de la Paix ne coïncides pas toujours avec celui de la Patrie ou de notre idéologie;
Etre pacifiste c’est ne pas consentir aux grossières falsifications que diffusent les propagandes;
Etre pacifiste c’est ne pas clamer qu’on veut la paix, quand on fait le jeu des fanatismes qui le rendent impossible;
Etre pacifiste c’est condamner c’est condamner, dans tous les camps, les intransigeances et les jusqu’auboutismes;
Etre pacifiste c’est s’affliger quand on voit un fusil ou une arme quelconque dans les mains d’un enfant:
Etre pacifiste c’est préférer que les réconciliations devancent les charniers;
être pacifiste c’est n’être jamais tout-à-fait sûr d’avoir raison quand on donne son assentiment à la mort des autres…

Estratto del discorso [qui il testo completo] fatto il 26 aprile 1968 da Jean Rostand, biologo, filosofo, membro dell’Académie française, fondatore e presidente d’onore del Mouvement pour le désarmement, la paix et la liberté MDPL


L’autore dell’articolo è specialista in problematiche dello sviluppo
Nell’immagine: i partecipanti alla Conferenza dell’Aia del 1907






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