“Dove fanno il deserto, lo chiamano pace”, fa dire Cornelio Tacito a un generale calèdone che deve motivare i suoi soldati prima di affrontare i romani. Sembrerebbe anche il piano di Israele, in attesa dell’operazione terrestre (ben oltre Gaza City) per ‘vendicarsi’ dei miliziani di Hamas che in poche ore, nello sciagurato e sanguinario blitz di indiscutibile stampo terrorista (orrendo massacro anche di anziani, donne, bambini, più il centinaio di ostaggi rapiti) hanno ucciso più israeliani civili che in qualsiasi altra guerra dal 1948 in poi. L’ordine di Tsahal a oltre un milione di palestinesi – che in sette giorni di bombardamenti hanno già subito oltre duemila morti e novemila feriti – di trasferirsi a sud della Striscia, avrebbe come scopo non solo di sradicare i combattenti jihadisti ma di desertificare e per sempre un terzo del territorio, circa 17 km di profondità e 9 di larghezza.
Fare terra bruciata, e nemmeno un abitante di mezzo. Creare un “cuscinetto territoriale” arido, facilmente controllabile, barriera di sabbia (e chissà che non venga alzato un muro, come quello altissimo che separa la “città santa” dalla Cisgiordania): contro ogni pericolo, contro ogni tentativo di infiltrazione, contro ogni speranza di perforare la cortina d’acciaio costruita attorno a quella “prigione a cielo aperto” dopo il ritiro deciso da Sharon. Nulla di meno sicuro, l’abbiamo visto.
Concretamente, “Gaza diventerà più piccola”, ha riassunto sbrigativamente un esponente del governo Netanyahu alludendo a questo progetto. Più piccola per oltre due milioni di disperati, ancor più ammassati, privati chissà quanto a lungo delle necessarie infrastrutture, senza un numero sufficiente di ospedali e scuole, senza lo spazio necessario a costruire numerosi insediamenti, senza una minima sostenibilità economica in quella che nelle dimensioni attuali ha già il primato mondiale di densità demografica.
Aggravamento assicurato di una infinita tragedia umanitaria, mentre già da decenni unicamente l’aiuto internazionale garantisce la sopravvivenza di oltre il 50 per cento di una popolazione – altro che soldi finiti nelle casse di Hamas, come suggeriscono i denigratori soprattutto delle Nazioni Unite – in maggioranza formata da giovani fino ai 25 anni di età. Ancora più frustrati. Garantiti futuri combattenti. Schiacciare a ridosso del confine con l’Egitto, che “fraternamente” tiene ancora chiuso ai gazawi l’unico passaggio di frontiera a Rafah, è l’ennesima follia. Anche sul piano militare.
Infatti, chi e come centinaia di migliaia di fanti israeliani darebbero la caccia ai miliziani armati qualora questi ultimi decidessero di sottrarsi all’impari confronto, quindi di ripiegare a loro volta verso il meridione sfuggendo all’urto dell’esercito israeliano e dei suoi reparti speciali? Con quale aggressività potranno intervenire per sradicare la presenza militare jihadista in stretti dedali di umanità? Future stragi garantite.
Thomas Friedman, del New York Times, il cui saggio “Da Beirut a Gerusalemme” è un testo indispensabile a chiunque cerchi di orientarsi nell’impazzita ragnatela vicino-orientale, aggiunge in un’intervista: “ E poi quale nuova struttura di potere potrà governare la Striscia? C’è una sola cosa peggiore di Hamas a Gaza, ed è che nessuno controlli Gaza, o che la controlli Israele. Per questo dico agli israeliani: non entrate a Gaza senza avere un’idea chiara e precisa di come ne uscirete”. Ora si ipotizza l’affidamento del controllo della Striscia, in modalità “peace keeping”, a una forza messa in campo dalla Lega Araba. Israele disposto ad affidare la sua sicurezza sul fronte meridionale a paesi musulmani “dialoganti” (ma nel caso di Arabia Saudita e Qatar esponenti di un Islam integrale) appare impensabile. Eppure, nell’ora in cui Biden definisce “un grosso errore l’eventuale occupazione militare israeliana di Gaza”, sembrerebbe che proprio a un intervento pacificatore “pan-arabo” punterebbe la missione del Segretario di Stato americano, Antony Blinken, impegnato in una serratissima tournée nella regione. Si vedrà con quali esiti.
Ma intanto già si profila il dilemma finale, il più importante per il futuro: a quali leader palestinesi, accada quel che accada, Israele si rivolgerà nel dopo-guerra?
Altro…deserto di idee. Soltanto difficilissimi interrogativi. Riabilitare e potenziare l’umiliato “Fatah,” erede di Yasser Arafat? Restituirgli una dignità impossibile senza cambiarne gli attuali dirigenti, incapaci politicamente, diffusamente corrotti, sommamente impopolari nei Territori occupati (diventati una sorta di separati Bantustan in modalità Apartheid)? Popolazione della West Bank che considera l’anziano Abu Mazen (presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese) ‘prigioniero volontario’ dei diktat israeliani? Specularmente, ci sarebbe l’imprescindibile necessità di allontanare dal potere anche “Bibi” Netanyahu: responsabile di aver lacerato Israele (anche per non finire in carcere per corruzione) a causa della sua anti-democratica riforma della giustizia; di aver accettato di allearsi con la parte più impresentabile (per razzismo e annessionismo) dell’estrema destra religiosa; e di aver impegnato una parte considerevole dell’esercito nei Territori occupati, in sostanza per difendere coloni e insediamenti ebraici, ennesima violazione, occorre sottolinearlo, del diritto internazionale e delle risoluzioni ONU.
Già ora, anche alla vigilia di quello che viene presentato come un lungo conflitto (che rischia oltretutto di esondare in altre parti della regione), e anche nell’incerto turbinio di ipotesi salvifiche, sono interrogativi impossibili da eludere.
Nell’immagine: se la Striscia di Gaza fosse in Ticino 2,4 milioni di persone vivrebbero fra Bellinzona e Mendrisio. Con la stessa densità di Gaza il Ticino avrebbe 19 milioni di abitanti