I conflitti irrisolti per incapacità o cecità, per calcolo o irragionevole certezza di avere infine il sopravvento, inseguono molto a lungo i loro responsabili politici; ma soprattutto le popolazioni innocenti, travolte a ritmi incalzanti dalla violenza delle armi. Ce lo insegna la Storia., e lo scontro israelo-palestinese, che dura da numerosi decenni, ne è ancora una volta tragica testimonianza.
Siamo, come tutto lascia capire in queste prime ore di cronaca, al più massiccio attacco di Hamas contro lo Stato ebraico, e le conseguenze in perdite umane, feriti e cumulo di macerie saranno ancora più pesanti rispetto alla precedente sequenza di offensive spesso partite dalla funestamente nota “Striscia” del Sud (da un ventennio in mano agli islamisti, ma sotto assedio continuo dei soldati di Tsahal) a cui Israele ha puntualmente risposto con repliche militari sempre più spropositate per accanimento e numero di vittime tra i civili. Peggio di sempre si preannunciano dunque le conseguenze di questo ennesimo capitolo di un infinito corpo a corpo, che ognuna delle parti battezza con titoli e che sembrano mutuati da virtuali videogiochi – “Tempesta Al Aqsa”, da parte palestinese, a cui si replica con l’“Operazione spade di ferro” – e che invece indicano passaggi tragicamente reali.
Appare superfluo chiedersi per l’ennesima volta di chi sia la responsabilità immediata per quella che entrambe le parti definiscono ormai una vera e propria “guerra”, con i capi di Hamas che ne enfatizzano la portata parlando di “momento eroico”. Talmente sono profonde le radici anche storiche e mai rimosse di un dramma che negli ultimi anni e assai colpevolmente le cancellerie dell’Occidente (soprattutto gli Stati Uniti, in particolare la pazzesca presidenza Trump) hanno tolto o derubricato dall’agenda internazionale, sperando che semplicemente siano la forza militare di una parte nonché la stanchezza e la rassegnazione dell’altra a porre un rimedio in effetti impossibile se affidata unicamente a una formula tanto aleatoria. Il tempo aiuta a rimarginare ferite di guai già consumati, non a risolvere una tragedia in corso.
Ci si può invece chiedere perché il “partito di Allah” e le sue varie ramificazioni abbiano deciso di ripassare proprio ora all’azione e come riesca a sprigionare una simile forza di fuoco contro i centri abitati israeliani, oltre alla cattura di alcuni soldati nemici (ancora da confermare ufficialmente dal governo insediato a Gerusalemme) minacciosamente esibiti come monito in alcuni scatti fotografici. Una spiegazione che vada oltre alla durezza del confronto registrato nelle ultime settimane. Che ovviamente ha il suo peso: si tratti della crescente pretesa della parte più radical-religiosa del governo Netanyhau di controllare e visitare, in violazione di vecchi accordi, la spianata delle Moschee (terzo luogo santo dell’Islam, ma anche parte superiore del tempio ebraico distrutto dai romani e di cui è simbolo e memoria il Muro del Pianto); oppure del recente pesantissimo blitz terrestre e aereo di Israele contro Jenin, che i palestinesi considerano ormai “città martire”, e che è diventata non solo base e rappresentanza della crescita islamista nella Cisgiordania occupata e un tempo “controllata” dalla laica Fatah; o ancora si tratti dall’aumento e dell’aggressività dei coloni che irrrompono impunemente nei centri palestinesi, in quella mappatura imposta dagli israeliani e che ha trasformato i Territori in una sorta di bandustan semi-isolati e tipici dell’ “apartheid”, come denunciano diverse organizzazioni umanitarie, compresa l’israeliana B’Tselem; infine, c’è la contesa interna palestinese, con Hamas in espansione e invece con gli eredi di Arafat (guidati dal contestato e ultra-ottantenne Abu Mazen) sempre meno riconosciuti dalla popolazione della West Bank, causa corruzione, intrallazzi, incapacità gestionale, pochezza di progettualità politica, e leadership screditata anche dal fatto che la permanenza della sua amministrazione è spesso frutto della collaborazione con l’occupante.
Ma non c’è “solo” tutto questo. Vi sono anche logiche internazionali a mettere le polveri dell’offensiva di Hamas. Sta cambiando il quadro medio-orientale, in una intersecazione di novità strategie interessi che per gli islamisti non sono necessariamente delle buone notizie. Gli “Accordi di Abramo” che hanno aperto relazioni ufficiali e reciproco riconoscimento fra monarchie arabe e Stato ebraico; il sempre più evidente riavvicinamento (complice la regia americana) fra Israele e Arabia Saudita; e da parte di quest’ultima l’imprevista riapertura del dialogo con l’Iran degli ayatollah, il principale alleato (e fornitore militare) di Hamas, che nonostante sia circondato dai militari di Israele , ma evidentemente non “sigillato”, può ottenere quanto serve alla sua guerra grazie alle forniture provenienti dai gruppi “fratelli”, ben presenti e attivi nel confinante Sinai egiziano, dove operano anche residue formazioni o emulatori dell’Isis, quello Stato Islamico che in realtà non è mai del tutto scomparso dalla scena, soprattutto africana, ma pure nel teatro medio-orientale.
E’ anche in questa mappa internazionale cangiante che si inserisce l’offensiva degli islamisti, oltre che alle ragioni e alle cause interne della sfida continua, fra attentati e ritorsioni, nella totale assenza di dialogo, nel vuoto assoluto di progetti politici, in una capacità offensiva di Hamas che ha sorpreso. Sotto quest’ultimo aspetto, si parla, anche esagerando, di ‘un altro Kippur’, quello del 1973, quando l’offensiva congiunta degli eserciti e dei carri armati della Siria sulle alture del Golan occupato, e dell’Egitto nel Sinai, colsero impreparato l’esercito Israele, che nei primissimi giorni rischiò di soccombere nella parte nord-orientale sotto l’impatto dei tanks di Assad padre. Un raffronto vero solo in parte. In effetti più di un monito, non unicamente dei servizi segreti militari, circolava da tempo in Israele sulle intenzioni islamiste dopo i numerosi attacchi israeliani in replica agli attentati palestinesi e ai massicci interventi dell’esercito israeliano in Cisgiordania.
Moniti inscoltati, é oggi l’accusa che arriva da più parti, nei confronti di Netanyahu, alleato e volontario prigioniero di una estrema destra nazional-religiosa, davvero il peggio che potesse arrivare al governo, per i suoi eccessi razzisti e per i progetti di territori palestinesi. Cosi si torna allo schema di una micidiale, quasi “complice” strategia attribuita ai due contendenti: ad Hamas che ritiene necessario usare le armi per imporsi sull’OLP e su nuove formazioni islamico-radicali che potrebbero contestarne il primato da Jenin a Hebron; e “utili” anche al leader israeliano, il quale lascia che Hamas si organizzi, attende le sue iniziative, poi risponde con la forza e come si addice a un salvatore della sicurezza e della patria. Tattica incendiaria. Ma che il capo del Likhud utilizzerà comunque nuovamente, visto oltretutto che una straordinaria replica militare può servigli nel tentativo di ricucire, o sminuire in una fase di necessaria unità nazionale, le lacerazioni che hanno approfondito il fossato fra le componenti laica e ortodossa del suo paese, mettendo a rischio (come s’è sottolineato durante le forti contestazioni al progetto di riforma della giustizia) le sue istituzioni democratiche. È lo scontro fra quelle che lo scorso anno l’ex capo dello Stato, Reuven Rivlin, ha definito con grande preoccupazione le nuove “tribù di Israele”. Tribù in lotta. Partita in cui il premier si gioca anche il suo congelato destino giudiziario. E di cui Hamas cerca evidentemente di approfittare.