Mai più Vajont – Una storia che ci parla ancora (2)
Vajont, cronache di un olocausto
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Vajont, cronache di un olocausto
• – Paolo Di Stefano
Il monito del Vajont
• – Redazione
Shock per Israele; il più massiccio attacco di Hamas contro lo Stato ebraico; per la prima volta commando palestinesi penetrano in territorio israeliano, uccidono e sequestrano civili e soldati; la sorpresa e l’impreparazione di Tsahal; le novità dei rapporti regionali fra i motivi dell’offensiva islamista
• – Aldo Sofia
La celebre rivista di filosofia e politica a rischio chiusura, ma i lettori e i sostenitori possono salvarla – Le parole del suo storico fondatore e direttore, Paolo Flores d’Arcais
• – Enrico Lombardi
Ancora per qualche giorno nelle sale del Cantone il film svizzero-canadese “Something You Said Last Night”
• – Simona Sala
A partire dal 9 ottobre le prime due stagioni della serie “The White Lotus”, in prima visione su RSI LA1
• – Redazione
L’ultimo romanzo di Sergio Roić, che ricorre all’ “ucronia”, sostituendo fatti e tempi immaginari ad eventi realmente accaduti
• – Redazione
Il premio per la pace, incoraggiamento al movimento di protesta contro la dittatura degli ayatollah; un’altra sedicenne in coma dopo l’aggressione della polizia morale; ma intanto la teocrazia di Teheran beneficia dell’interessato soccorso di Russia e Cina
• – Aldo Sofia
Il Consiglio di Stato ticinese si appresta a presentare il Preventivo 2024. Con la ghigliottina del pareggio di bilancio entro i prossimi due anni
• – Aldo Sofia
Uno slogan elettorale che tradotto in italiano suonerebbe “resto attaccato allo scranno”
• – Alberto Cotti
Vajont, cronache di un olocausto
È ciò che succede quasi sempre, specie in Italia, dopo le grandi tragedie collettive, nella fase del confronto su fatalità e colpe. Alla lunga la memoria interna delle vittime finisce per restare distante dalla «memoria degli altri», quella esterna: toccherà alla giustizia e poi semmai agli storici il compito di colmare il divario, cercando di stabilire (o almeno di avvicinarsi a) una verità. Ma non è raro che la prima, la giustizia, produca delusione, risentimento, rabbia, aggiungendo al dolore dei sopravvissuti un senso amaro di incomprensione e in definitiva di tradimento delle promesse di riparazione penale, morale (ed economica) del danno. Penso ad esempio alla catastrofe di Marcinelle dell’8 agosto 1956, prima colossale tragedia della Repubblica italiana (anche se avvenuta fuori dai suoi confini), dove questi elementi continuano tutt’oggi a intrecciarsi, irrisolti, al punto da perpetuarsi nelle seconde e nelle terze generazioni.
Il disastro del Vajont, così come si è sviluppato transitando dalla cronaca alla storia, si presenta come un caso esemplare nei suoi vari passaggi: presagi di strage > strage > denunce e accuse di corresponsabilità alle autorità pubbliche > richiesta di giustizia da parte delle vittime > promessa di riparazione ai sopravvissuti e garanzia che un simile fatto non si ripeterà > iter lento e più o meno nebuloso dei processi > senso collettivo di ingiustizia e di impunità a futura memoria. Una catena di passaggi che si ripeteranno con implacabile regolarità per tante stragi e catastrofi «naturali» a venire. Si può affermare che il Vajont rappresenta insieme il capostipite e il più clamoroso degli eventi quasi-fotocopia che per tante ragioni hanno assunto dimensioni politiche. Con molteplici tratti peculiari che riguardano la messa in scena decisiva da parte dell’informazione, tra cronaca e commento, tra referto, partecipazione al dolore della gente e interpretazione, compresi i relativi rapporti, espliciti o impliciti, con il potere politico. Oltretutto, come si vedrà, la calamità bellunese dell’ottobre 1963 presenta un macroscopico e resistente esempio di oblio, di oscuramento o di rimozione che ha una evidente matrice sessista. (…)
All’immediata e diffusa solidarietà economica, che certo al di là delle ampie volute retoriche con cui veniva presentata aveva una profonda motivazione umanitaria, corrispose, come accennato, una tenace cautela nel valutare le responsabilità degli eventi. Salvo eccezioni clamorose, nei giorni che seguirono il disastro la prudenza suggerì di aggirare i toni eccessivi di sospetto sui mancati controlli, sulle negligenze dei dirigenti, degli ingegneri e dei progettisti, o sulle plurime connivenze tra azienda privata (da poco diventata pubblica) e politica. (…)
La questione tecnica e morale, man mano che i giorni passavano, andava assumendo una sempre più accesa coloritura politica che vedeva contrapposti non solo i fatalisti bianchi e i colpevolisti rossi. E questo avvenne anche perché «l’Unità» non esitò a rivendicare con vigore il proprio primato, e cioè l’aver denunciato da anni le magagne della diga e del contesto geologico in cui l’impianto era stato progettato dalla Sade con la benedizione o il silenzioso assenso delle autorità ministeriali. Il nome che fu taciuto allora e che a tutt’oggi rimane parzialmente in ombra è quello di una donna: ed è un silenzio che non si sottrae al sospetto di discriminazione maschilista in un tempo in cui la presenza femminile all’interno delle redazioni dei giornali era a dir poco sparuta, figurarsi se poteva essere riconosciuto serenamente l’intervento d’inchiesta sul campo. Si tratta di Tina Merlin, un’ex partigiana nata nel 1926 a Trichiana, in provincia di Belluno, e divenuta corrispondente locale del quotidiano comunista: è a lei che si devono le denunce precoci a proposito dei gravi pericoli che avrebbero dovuto dissuadere dal costruire la diga. Ribattezzata «la Cassandra del Vajont», fu Merlin a dare voce, fin dal 1959, agli abitanti di Erto e Casso sui timori relativi alla solidità della montagna, ai movimenti e ai boati, alla conformazione del terreno, ai sismi, agli smottamenti, esprimendo seri dubbi sull’opportunità di avviare nella zona quell’opera monumentale di ingegneria idraulica. I primi articoli le procurarono, su iniziativa dei carabinieri, una querela per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico». Processata, venne assolta con formula piena nel 1960 dal giudice Angelo Salvini del tribunale di Milano. E non tacque.
Nel libro Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe, pubblicato con molte difficoltà solo nel 1983 presso il piccolo editore milanese La Pietra, Merlin racconta l’iter di controversie, denunce, appelli, esposti e vane opposizioni che precedette e accompagnò la costruzione della diga ad arco più grande del mondo sin dall’approdo della Sade a Erto nel 1956, con gli espropri che seguirono. Quell’impianto, orgoglio della società e del suo ideatore Carlo Semenza, già con i primi progetti faceva «tremare le vene e i polsi» persino al vecchio geologo in pensione Giorgio Dal Piaz, richiamato in servizio dalla stessa Sade per stendere un parere tecnico da allegare alla domanda ministeriale. La giornalista Merlin ricostruisce pure, con dovizia di documenti, i rapporti di reciproche intese tra le aziende private e settori dello Stato. Con queste premesse, nessuno più di lei era autorizzato a scrivere dopo la tragedia. Saputa la notizia nella notte, Merlin provò a raggiungere Longarone ma, come racconta il figlio giornalista, Toni Sirena, fu fermata al bivio di Ponte nelle Alpi, dove era stato fissato un posto di blocco. Da lì telefonò al giornale per fornire via via gli aggiornamenti nel corso della notte. L’11 ottobre firmò per «l’Unità», come corrispondente, un risoluto atto d’accusa in cui ricordava le profezie di sciagura pubblicate negli anni precedenti. Incipit: «È stato un genocidio. […] Che qualcuno, se ne ha il coraggio, mi smentisca in questo momento. Io assumo la responsabilità di quanto dico; i colpevoli si assumano la responsabilità di quanto hanno fatto. E la giustizia giudichi. Affermo che ci sono responsabilità morali e materiali».
Segue la breve cronistoria delle vicissitudini che portarono la «figlia di questo popolo contadino e montanaro» a sostenere le denunce della popolazione locale contro la Sade e gli inascoltati appelli rivolti allo Stato. Una strage che si poteva evitare era il catenaccio a piena pagina che campeggiava in prima sopra l’editoriale, firmato da Aniello Coppola. Il giorno dopo, 12 ottobre, si alzavano i toni, e sempre sull’«Unità» un servizio intitolato a caratteri cubitali È STATO UN ASSASSINIO ! riportava, tra l’altro, le richieste di giustizia del vicesindaco di Longarone al premier Giovanni Leone. Nel frattempo, si dava notizia che trenta parlamentari comunisti, tra i quali Togliatti, Ingrao e Pajetta, avevano presentato un’interpellanza al presidente del Consiglio in cui si chiedevano lumi a proposito del grado di conoscenza del governo sulle condizioni di sicurezza della zona e sugli allarmi dei giorni precedenti.
Da “Mai più Vajont – 1963-2023 – Una storia cher ci parla ancora”, ed. Fuori Scena, Milano, pp.9-10; pp.20-23
Nell’immagine: il paese di Longarone distrutto
Storia avvincente di un incontro tutto al femminile nell’esordio di Isabella Venturi
La scrittura furiosa e dissonante di un grande autore del Novecento italiano, ad un secolo dalla nascita