Amy Winehouse, la più abbagliante fra le meteore
Quarant’anni fa nasceva una delle più inconfondibili voci del pop - rock, spentasi troppo presto per un triste destino fatto di disagio e sofferenze
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Quarant’anni fa nasceva una delle più inconfondibili voci del pop - rock, spentasi troppo presto per un triste destino fatto di disagio e sofferenze
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Quarant’anni fa nasceva una delle più inconfondibili voci del pop - rock, spentasi troppo presto per un triste destino fatto di disagio e sofferenze
In una tiepida giornata di luglio londinese, alla vigilia di quello che sarebbe stato il suo atteso concerto al Paléo Festival di Nyon, Amy Winehouse fa il suo ingresso nel leggendario e macabro “Club dei 27”; un club esclusivo nato tra il 1969 e il 1971, un lasso di tempo in cui ben quattro icone del rock passarono a miglior vita all’età di 27 anni: Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e il “Re lucertola” Jim Morrison. Il Club nel corso del tempo ha purtroppo annoverato altre supernova, tra le quali Kurt Cobain, Jean-Michel Basquiat e appunto Amy Winehouse, che entrandoci conquistò l’immortalità. Quella edificata in una manciata di anni e con soli tre 3 album (l’ultimo pubblicato postumo), una voce e una personalità fuori dal comune che le hanno permesso di attraversare come un uragano il mondo della musica, della moda (aveva disegnato una collezione per il marchio Fred Perry, andata a ruba!), della cultura popolare. Niente male per uno scricciolo di donna (non raggiungeva il metro e sessanta), la cui vita a dir poco travagliata fu segnata da importanti problemi fisici e psicologici, che si manifestarono nelle dipendenze e con disordini alimentari. Una meteora, dunque, di quelle tra le più abbaglianti, di quelle che accecano per la potenza della propria luce e sono destinate a segnare un’epoca, una generazione.
Il “suo” soul, il suo timbro vocale davvero unico, quello di una voce nera contenuta in un’anima fragile, unitamente alla sua capacità interpretativa e alla riluttanza congenita di onorare regole imposte, marchiano indelebilmente una generazione di voci femminili; una rivoluzione che permise ad altre giovani autrici e interpreti di prenderla anche quale punto di riferimento. Del “nuovo soul”, del “blue eyes soul”: Adele, Duffy, Lady Gaga, oltre ad alcuni maschietti che ne fanno un punto di riferimento e non solo per le qualità e il talento artistico. Nata in una famiglia ebraica a Enfield, sobborgo londinese, il 14 settembre del 1983, Amy ha sempre respirato musica, sin dalla tenera età: l’amata nonna paterna Cynthia (il cui nome ha tatuato sul braccio) era cantante, i genitori – mamma farmacista e padre tassista – amavano il jazz.
Queste sue inclinazioni non tardano a manifestarsi: a 10 anni fonda un gruppo rap amatoriale, poco dopo acquista una chitarra, a 16 anni entra nella National Youth Jazz Orchestra. Inizia pure a scrivere e comporre ampliando al contempo i suoi ascolti e innamorandosi del soul. Quello di Diana Ross e delle Supremes per intenderci. La sua indole ribelle, insofferente alle regole, si manifesta già in tenera età e le provoca problemi scolastici sia per lo scarso rendimento sia per la volontà di infrangere regole comportamentali e di abbigliamento: sfoggia bigiotteria vistosa, piercing e trucco pesante – assolutamente vietati – e inizia a prender forma quell’inconfondibile pettinatura a nido d’ape che diverrà uno dei suoi iconici tratti distintivi. Ma ciò che più conta, Amy scrive, compone, canta. È un bisogno vitale, inarrestabile e travolgente. Taumaturgico.
E il suo canto è paragonabile a quello delle sirene. Che incanta, ipnotizza, spiazza, stordisce. Lo cogliamo già nell’album d’esordio “Frank”. Pubblicato nel 2003 contiene i prodromi di ciò che pochi anni dopo sarebbe stata, e come la sua personalità e talento artistico sarebbero deflagrati. Nel frattempo, la sua fragilità, le sue ombre, la fatica di vivere si amplificano. Si concede allora del tempo per curarsi, o tentare di farlo. Dai disordini alimentari all’uso di stupefacenti e alcool, unitamente alla sua fatica di vivere, sono davvero una brutta bestia. Anche le frequentazioni non sono certo tra le più indicate. Ci prova Amy, ci prova davvero a curarsi; forse non del tutto. La storia narra che alla richiesta di andare in riabilitazione, lei accettò per compiacere il suo entourage e che, giunta nel centro prescelto, disse che beveva perché innamorata e perché la sua relazione si era conclusa.
E intanto pubblica l’album capolavoro “Back to Black”, una manciata di canzoni che la consegnano all’immortalità. Canzoni quasi autobiografiche, vere, delle lettere aperte in cui confessare e raccontarsi con le sue ombre e le sue fragilità e la volontà di bruciare fino alla fine. In “Rehab”, ad esempio, canta del suo rapporto con le dipendenze e del suo rifiuto a sottoporsi alla riabilitazione. In “You know I’m good” non fa certo mistero che non la preoccupa apparire una “persona sbagliata”, benché sincera e coerente. Oppure la title-track (Back to Black) il cui video termina con Amy che fa il funerale al proprio cuore. Sposa Blake Fielder-Civil, al quale era legata da tempo e che secondo molti è reo di averla condotta all’uso e abuso delle droghe pesanti. Ed è la classica relazione tossica. Non dura, anche se gli strascichi della separazione sono pesanti. Stop alle droghe ma torna in modo prorompente l’abuso di alcool. Le sue apparizioni pubbliche ci consegnano spesso una donna disordinata, confusa, alterata, imbarazzante.
Alcol, antidepressivi, pastiglie divorandola accelerano l’appuntamento con “l’ineluttabile”, che arriva nel luglio del 2011, quando il tour già programmato, ma annullato dopo alcune date, avrebbe dovuto portarla tanto a Nyon quanto in Piazza Grande a Locarno. E mi piace ricordare come e quanto questa anima fragile e straziata, che ha conosciuto gli abissi della depressione senza riuscire ad addomesticare i propri mostri, nel corso dell’intera sua vita si sia spesa, e tanto, per il prossimo: donando e sostenendo enti e associazioni che si occupavano delle dipendenze e della salute mentale soprattutto dei giovani. E spesso in forma privata, lontano dai clamori mediatici. Non a caso la famiglia Winehouse ha creato una fondazione che opera onorando Amy. Ed è un’altra, tangibile, eredità che ci ha lasciato una tra le più significative ed amate voci del nuovo millennio.
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