Anna Politkovskaja – La Russia ha già avuto governanti di questa risma. Ed è finita in tragedia
Parole di verità contro il frastuono del silenzio
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Parole di verità contro il frastuono del silenzio
Profetica. È il primo e forse fondamentale aggettivo che possa definire l’eredità giornalistica e letteraria di Anna Politkovskaja, nata a New York nel 1958, figlia di due diplomatici sovietici di origine ucraina.
Laureata a Mosca in giornalismo (con una tesi sulla grande poetessa Marina Cvetaeva), comincia giovanissima a lavorare per il quotidiano Izvestia (allora voce del Soviet Supremo e oggi di proprietà di Gazprom) per poi passare, nel 1999 alla Novaja Gazeta, giornale fondato da un gruppo di giornalisti della Pravda e sostenuto sin dalla sua nascita da Michail Gorbaciov. Per il periodico, diretto dal premio Nobel per la pace Dmitrij Muratov (dal 28 marzo scorso ridotto al silenzio da nuove, inasprite sanzioni governative di controllo dei media), la Politkovskaja ha scritto numerosi articoli e reportage, soprattutto relativi alla guerra in Cecenia e all’ascesa inarrestabile di Vladimir Putin, che l’hanno messa nel mirino delle stanze del potere del Cremlino fino a che, il 7 ottobre 2006, (giorno del compleanno dello “zar”) il crepitio di quattro pallottole non ha squarciato, nel silenzio dell’atrio della sua casa, la sua vita, ed una voce fondamentale di dissenso che ancora oggi risuona, appunto, profetica, nei suoi libri, tradotti in tutto il mondo.
I testi di Anna Politkovskaja, giornalistici e cronachistici, certo, ma di notevole qualità letteraria, sono pubblicati in italiano dalla casa editrice Adelphi, che ha da poco ristampato un volume di straordinaria attualità, “La Russia di Putin”, una raccolta di ritratti, racconti, episodi legati alle atrocità della guerra in Cecenia come dell’oltraggio quotidiano ad ogni forma di rispetto dello stato di diritto, riconducibili alla volontà di potere di Vladimir Putin. Ma, come scrive nell’introduzione al volume, “questo libro non è un’analisi della politica di Putin dal 2000 al 2004. Le analisi politiche le fanno i politologi. Io sono un essere umano fra i tanti, un volto nella folla di Mosca, della Cecenia, di San Pietroburgo, di qualunque altra città della Russia. Ragion per cui il mio è un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia”.
E basta seguirla, fra le strade della capitale, o dentro i palazzi del regime, per accorgersi che le sue sono storie della Russia di oggi, di un paese in mano ad una dirigenza corrotta, gretta, affaristica, divorata dalle smanie di potere. Ad ogni costo, senza pietà.
Da “La Russia di Putin”, qui un breve estratto dal capitolo “Akakij Akakievič Putin II”, un graffiante, sarcastico, coraggiosissimo pamphlet sulla figura del dittatore russo in occasione della sua prima “rielezione”, nel 2004.
Ho riflettuto a lungo sul perché ce l’ho tanto con Putin. Che cosa me lo fa detestare al punto da dedicargli un libro? Non sono un suo oppositore politico, sono solo una cittadina russa. Una moscovita quarantacinquenne che ha potuto osservare l’Unione Sovietica all’apice della sua putrefazione comunista, negli anni Settenta e Ottanta del secolo scorso, e non vuole ricascarci. […]
Ancora poche ore, e il 7 maggio del 2004 Putin, tipico tenente colonnello del KGB sovietico, con la forma mentis – angusta – e l’aspetto – scialbo – di chi non è riuscito a diventare colonnello, con i modi di un ufficiale dei servizi segreti sovietici a cui la professione ha insegnato a tenere sempre d’occhio i colleghi, quell’uomo vendicativo (alla cerimonia di insediamento non è stato invitato nessun rappresentante dell’opposizione o di qualunque partito che non sia in completa sintonia con il suo), quel piccoletto che ci ricorda così da vicino l’Akakij Akakievič gogoliano in cerca del suo cappotto, tornerà ad insediarsi sul trono. Sul trono di tutte le Russie.
Breznev è stato pessimo. Andropov sanguinario sotto una patina di democrazia. Černenko un idiota. Gorbačëv non piaceva. El’cin ogni tanto ci costringeva a farci il segno della croce per timore delle conseguenze delle sue decisioni…
Questo è il risultato. Domani, 7 maggio, colui che è stato una loro guardia del corpo, assegnato allo scaglione 25 con il compito di starsene impalato nel cordone di sicurezza quando il corteo VIP sfrecciava oltre, proprio lui, Akakij Akakievič Putin, incederà sul tappeto rosso della sala del trono del Cremlino. Da padrone. Tra lo scintillìo degli ori degli zar appena tirati a lucido, mentre la servitù sorriderà sottomessa e i suoi sodali – tutti ex pesci piccoli del KGB assurti a ruoli di grande importanza – gonfieranno tronfi il petto. […]
A renderlo possibile, però – e va detto – non sono state solo la nostra negligenza, l’apatia e la stanchezza seguite a tante – troppe – rivoluzioni. Il processo è stato accompagnato da un coro di osanna in Occidente. In primo luogo da Silvio Berlusconi, che di Putin si è invaghito e che è il suo paladino in Europa. Ma anche da Blair, Schroeder e Chirac, senza dimenticare Bush junior oltreoceano.
Il nostro ex KGBista non ha trovato inciampi sul suo cammino. Né in Occidente, né in un’opposizione seria all’interno del Paese. Per tutta la sua cosiddetta compagna elettorale – dal 7 dicembre del 2003 al 14 marzo 2004 – Putin si è fatto beffe del suo elettorato. In primo luogo perché si è rifiutato di discutere alcunché con chiunque. Non ha mai ritenuto opportuno fornire spiegazioni riguardo a qualsiasi punto del suo programma per i quattro anni precedenti. Ha mostrato disprezzo non solo per i rappresentanti dell’opposizione, ma per l’opposizione in quanto tale. Non ha fatto promesse. Non ha fato appelli. Come in era sovietica, la televisione lo mostrava quotidianamente in tutte le sue ipostasi politiche. Per esempio mentre riceveva i più alti funzionari nel suo ufficio del Cremlino e forniva loro consigli preziosi su come gestire il ministero o l’ente di loro competenza.
A qualcuno scappava da ridere: pare Stalin, dicevano. Anche lui era “amico dei bambini”, “miglior allevatore di suini”, “minatore eccelso”, “compagno dei ginnasti”, “primo cineasta” e quant’altro. […]
Va da sé che non incontrando resistenza, Putin si è fatto ancora più insolente. Non è vero che non guardi in faccia niente e nessuno, che nulla lo turbi e che si limiti a portare avanti la sua linea per restare in sella.
Le guarda, le facce, eccome. La osserva attentamente, la nazione che ha sotto di sé. E lo fa perché è un čekista, uno sbirro della polizia segreta. Il suo è il tipico comportamento di chi ha lavorato per il KGB. Per dare informazioni in pasto all’opinione pubblica sceglie una ristretta cerchia di persone. Persone che nel nostro caso sono il bel mondo politico della capitale. Lo scopo è tastare il terreno e sondare le reazioni. Se non ce ne sono, o se la reazione è amorfa, gelatinosa, tutto procede per il meglio e si può continuare, si può andare avanti a diffondere le proprie idee e agire come si ritiene opportuno senza troppe remore. […]
Putin ha dimostrato più volte di non comprendere il concetto stesso di dibattito. E tanto meno quello di “dibattito politico”: chi sta sopra non discute con chi sta sotto, e se chi sta sotto si permette di farlo diventa un nemico. Se Putin si comporta in questo modo, non lo fa perché è un tiranno e un despota congenito, ma perché così gli è stato insegnato. Queste sono le categorie che gli ha inculcato il KGB e che lui stesso ritiene ideali, come ha più volte dichiarato. Perciò, non appena qualcuno dissente, Putin si limita a chiedergli di “piantarla con gli isterismi”. Per questo rifiuta i dibattiti pre-elettorali: non sono il suo ambiente, non è capace di parteciparvi, non sa reggere un dialogo. La sua arte è quella del monologo, il suo schema quello militare: da basso rango ero costretto a non fiatare? Ora che sono in cima alla scala parlo, anzi monologo, e che gli altri fingano di essere d’accordo con me. […]
Se non mi piace è anche perché nemmeno noi piacciamo a lui. Non ci sopporta. Ci disprezza. Siamo solo un mezzo, per lui. Un mezzo per raggiungere il potere personale. Per questo dispone di noi come vuole. Può giocare con noi, se ne ha voglia. Può distruggerci, se lo desidera. Noi non siamo niente. Lui, finito dov’è per puro caso, è il dio e il re che dobbiamo temere e venerare.
La Russia ha già avuto governanti di questa risma. Ed è finita in tragedia. In un bagno di sangue. In guerre civili. Io non voglio che accada di nuovo. Per questo ce l’ho con un tipico čekista sovietico che ascende al trono di Russia incedendo tronfio sul tappeto rosso del Cremlino.
(Da Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, trad. Claudia Zonghetti, Milano, Adelphi, 2005, rist. 2022)
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