Ucraina, da che parte stiamo?
Dire le cose come stanno, chiamare guerra la guerra, armi le armi e morte la morte è l’unica via possibile per non tacere e non smettere di usare la storia, la lingua e la cultura per il loro più alto valore
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Dire le cose come stanno, chiamare guerra la guerra, armi le armi e morte la morte è l’unica via possibile per non tacere e non smettere di usare la storia, la lingua e la cultura per il loro più alto valore
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Dire le cose come stanno, chiamare guerra la guerra, armi le armi e morte la morte è l’unica via possibile per non tacere e non smettere di usare la storia, la lingua e la cultura per il loro più alto valore
Da alcune settimane sono alle prese, nel mio piccolo, con una ricerca sul conflitto balcanico degli anni Novanta e sulle conseguenze di quei crimini nella Svizzera italiana, in termini di accoglienza e gestione dell’immigrazione. Nonostante la viva presenza di molti testimoni anche alle nostre latitudini, sembravano cose lontane, irripetibili, l’ultimo colpo di coda di un Novecento agonizzante e fiero, con le armi quasi spuntate. Non è così. Ne ho avuto piena consapevolezza quando uno dei miei partner nel progetto balcanico ha iniziato a comparirmi sullo schermo in diretta dal Donbass (anche per la RSI), dove è chiuso da giorni dopo avere messo in standby lo studio del passato per tornare rapinosamente ad occuparsi della narrazione del presente. I contenuti, accidenti a noi, sono gli stessi.
Gli esperti di relazioni internazionali e gli storici del futuro ci daranno un’interpretazione di questi fatti che noi ancora non capiamo (ma li capiremo mai? Si può “capire” una guerra di aggressione?). Non possiamo però esimerci dall’osservare quello che accade attorno a noi, nell’opinione pubblica, nei social, sui giornali, nei quali la storia è tornata tema di attualità e tutti la tirano dalla loro parte come una coperta corta: Putin ha offerto, da questo punto di vista, un capolavoro di disonestà intellettuale come avviene soltanto nei peggiori sistemi totalitari, nei quali il controllo si esercita, assai prima che sui corpi e sulla realtà concreta delle persone, sulle loro menti attraverso lo strumento potentissimo della lingua. Termini quali “denazificazione” e “genocidio”, utilizzati con agghiacciante disinvoltura nei suoi discorsi, sono segnali di una mente che non ha (più?) un rapporto lineare con la realtà dei fatti, né tantomeno con le categorie storiche. Nessuna sorpresa, si potrebbe dire, in una nazione e in una cultura che si ostina a chiamare “Grande Guerra Patria” la Seconda Guerra Mondiale, accorciandola pure di un paio d’anni, e che applica una memoria selettiva al suo passato più tragico, trascegliendo il meglio a proprio uso e consumo.
Dubito che Vladimir Putin tenga sul comodino, che immagino enorme come uno dei suoi tavoli, una copia di Vita e destino di Vasilij Grossman (1960), capolavoro della dissidenza antinazista e anticomunista nato in contesto sovietico durante gli anni peggiori dell’epoca staliniana. Gli farebbe bene, come farebbe bene a noi per non cadere nell’allettante errore di iniziare a mettere davanti i distinguo, i “sì ma però”, i “se la sono cercata”. Dire le cose come stanno, chiamare guerra la guerra, armi le armi e morte la morte è l’unica via possibile per noi spettatori inermi e sbalorditi, che di questa tragedia vedremo forse solo l’onda lunga e indebolita, ma che potremo forse comunque considerarla un’occasione per non tacere e non smettere di usare la storia, la lingua e la cultura per quello per cui sono state create in origine: la narrazione del mondo secondo la più alta approssimazione possibile alla sua verità. Il resto sono frottole che volentieri ci raccontiamo.
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