Armi ed ecocidio
Perché per l’Ucraina l’uso di armi con uranio impoverito può diventare la fine del granaio d’Europa
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Perché per l’Ucraina l’uso di armi con uranio impoverito può diventare la fine del granaio d’Europa
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Perché per l’Ucraina l’uso di armi con uranio impoverito può diventare la fine del granaio d’Europa
Di Francesca Salvatore, Insideover
Nel pieno della controffensiva ucraina e dei contrattacchi russi, dagli Stati Uniti giunge la notizia, trapelata attraverso il New York Times e il Wall Street Journal, di una prossima fornitura di proiettili all’uranio impoverito per Kiev come equipaggiamento dei carri Abrams che stanno per giungere da Washington. Senza attendere l’ufficialità della notizia, l’indiscrezione ha già provocato la reazione di Vladimir Putin, che si è detto pronto a fare utilizzo della stessa arma qualora fosse necessario. Così, quasi ufficialmente, uno degli spettri più inquietanti dei conflitti contemporanei riappare anche nella guerra in Ucraina, contribuendo a gettare una pesante ombra sul futuro agricolo dell’intero Paese, già devastato da oltre un anno di guerra. L’Ucraina sarà ancora il granaio d’Europa?
L’uranio impoverito (depleted uranium), derivato dall’arricchimento dell’uranio, viene utilizzato per la fabbricazione di proiettili: ciò rende questi oggetti costituiti da materiale radioattivo non fissile, che quindi non può esplodere con una reazione nucleare a catena. Le ragioni per cui vengono utilizzati sono principalmente due: essendo realizzati con prodotti di scarto, hanno un costo nettamente inferiore ad altri armamenti; essendo proiettili molto più pesanti di quelli comuni, rendono più efficace la perforazione al momento dell’impatto contro l’obiettivo. Le conseguenze per l’uomo, tuttavia, sono disastrose: gli studi che sono stati condotti sui militari esposti hanno rilevato danni soprattutto di origine chimica che possono addurre patologie all’apparato gastrointestinale e, in generale, il cancro. Era stata proprio l’Italia ad attenzionare l’opinione pubblica internazionale sugli effetti dell’esposizione ai proiettili all’uranio impoverito dopo una serie di segnalazioni mediche risalenti alla fine degli anni Novanta, legate a militari coinvolti in missioni internazionali: si parlò all’epoca di sindrome dei Balcani. Non avendo, nei fatti, un effetto radioattivo i proiettili di questo tipo restano consentiti e non sono vietati da alcuna convenzione internazionale.
Resta però che, esplodendo, questi proiettili nebulizzano nell’aria un aerosol di polveri chimicamente tossiche. Dalla fine degli anni Novanta, la letteratura scientifica ha prodotto un florilegio di studi che mostrano gli effetti di lungo periodo sui terreni e sulla salute delle popolazioni quando le armi, finalmente, tacciono. Una grande mole di dati giunge da Medioriente: in Iraq, ad esempio, sono stati condotti degli studi sulle piante di pomodoro in aree ove erano stati distrutti carri armati con proiettili di questo tipo. Lo studio testimoniava che la crescita delle piante si riduce all’aumentare della concentrazione di uranio impoverito, mentre talune addirittura smettevano di crescere. L’assorbimento delle sostanze disperse, inoltre, cresce con l’aumentare della concentrazione di uranio: una concentrazione superiore a 500 mg Kg-1 di suolo è, invece, risultata addirittura letale per le piantagioni stesse.
Bombardamenti e combattimenti, poi, generano anche altre forme di inquinamento di tipo chimico. Carburanti, munizioni, ordigni inesplosi, carcasse di animali, cadaveri umani sono in grado di devastare il suolo per decenni. I principali nemici, in questo caso, sono piombo, mercurio e arsenico. Secondo l’Aiea, monitorare le fonti idriche nei post-conflitti è fondamentale. L’uranio impoverito presente nei suoli, ad esempio, è in forma chimica ossidata e solubile, dunque in grado di migrare potenzialmente verso le acque superficiali sotterranee, quindi di entrare nella catena alimentare. Ciò che non sappiamo è quanto tempo sia necessario perché questo avvenga: sono le caratteristiche del terreno a determinare la velocità di decomposizione dei proiettili all’interno del suolo e il suo arrivo alle fonti d’acqua.
Le devastazioni legate al conflitto hanno, inoltre, il potere di devastare fisicamente la composizione del terreno. L’Ucraina possiede uno dei suoli più fertili al mondo: si chiama chernozem, una parola mista-ucraina e russa- che indica i terreni fertili caratterizzati da almeno due metri di materia inorganica e scura; fino a poco prima del conflitto ricopriva quasi due terzi di quelli che erano i terreni agricoli ucraini. Negli ultimi 10mila anni si è accumulato lungo le steppe euroasiatiche, formando un letto nero su sedimenti fini trasportati dal vento. Sono terreni con un buon contenuto di argilla, fortemente ricchi di vitamine, minerali ma soprattutto potassio, azoto e calcio, fondamentali per la crescita delle colture: insomma, la natura ha benedetto questo angolo di mondo con delle potenzialità agricole più uniche che rare.
Da un anno a questa, parte il territorio ucraino è sottoposto a ciò che il geomorfologo americano Joseph Hupy ha definito bombturbation in uno studio del 2006: le devastazioni dovute ai bombardamenti, infatti, scavano crateri e spostano zolle di terra. Questo contribuisce a creare delle macroscopiche rivoluzioni geologiche e organiche che rimescolano rocce, metalli, terreno e modificano l’assetto idrogeologico. Senza alcun tipo di intervento umano questi territori perturbati sono destinati all’infertilità e alla crescita incontrollata della foresta. Se la guerra finisse domani, e i contadini ucraini si rimboccassero le maniche fin da subito, non basterebbe dunque occuparsi solo della superficie: il sottosuolo devastato e le macerie, in particolare, sono in grado di agire come una chiusa per l’acqua, impedendo che qualsivoglia coltivazione possa attecchire. E poi ci sono i carri armati: con il loro peso agiscono come compattatori del suolo, il che danneggia i cernozemi, impedendo all’acqua di penetrare nel terreno e alle radici di raggiungere i nutrienti. Danni che possono affliggere i terreni agricoli fino a cinque anni.
Le devastazioni sono anche quelle provocate dall’acqua. Come nel caso della diga di Nova Kakhovka che ha immediatamento fatto parlare di ecocidio. Non solo perchè sta mettendo in pericolo una delle oasi di biodiversità euroasiatiche più preziose, ma perché la manomissione della diga mette a rischio il futuro agricolo del Paese. L’impianto, infatti, ha sempre avuto numerose funzioni, tra le quali quella di bacino di accumulo per l’agricoltura nonché sistema di calmierazione delle piene.
Oltre all’allagamento “meccanico”, il primo grande rischio è quello del trasporto di agenti tossici attraverso il flusso d’acqua: come nel caso dell’olio idraulico della sala macchine della diga, che sta causando la moria di varie specie. L’attentato alla diga, inoltre, ha fatto saltare ben 31 sistemi idraulici responsabili dell’irrigazione agricola nelle regioni di Zaporizhzhia, Dnipropetrovsk e Kherson: dal prossimo anno l’intera area del delta del Dnipro, da rigoglioso bacino verde d’Ucraina, rischia di trasformarsi in un’enorme deserto. Senza dimenticare che le persone rimaste nell’area, prevalentemente occupate nel settore agricolo, stavano qui conducendo la propria battaglia esistenziale in nome del grano. Nel frattempo, sta giungendo il generale “estate”, e qualora dovesse rivelarsi torrida, per il granaio d’Europa suonerà il de profundis.
Nell’immagine: munizioni all’uranio impoverito
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