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Loretta Dalpozzo
Loretta Dalpozzo
Aung San Suu Kyi, declino di un’icona
• 7 Dicembre 2021 – Loretta Dalpozzo
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“La vera prigione è la paura e l’unica vera libertà è essere liberi dalla paura”. Vien da chiedersi se nel luogo segreto dove trascorre le giornate in detenzione, Aung San Suu Kyi riesca a trovare conforto nelle parole che l’hanno resa famosa. A undici anni dalla sua liberazione, dopo 15 anni trascorsi agli arresti domiciliari, la leader deposta dal colpo di Stato del 1. febbraio, rimane prigioniera dei militari e rischia di esserlo per diversi anni a venire.

La condanna a quattro anni di carcere, ridotti a due poche ore dopo, per incitamento a disordini pubblici e violazione dei protocolli Covid-19, non è una sorpresa. La giunta militare birmana ha dimostrato di voler soltanto consolidare il proprio potere, soffocando qualsiasi possibilità di dialogo e di compromesso, incurante delle pressioni della comunità internazionale. Questa è la prima volta che ASSK è stata condannata per più crimini, a dimostrazione che l’esercito è più duro e determinato di quelli precedenti.

Nella più recente dimostrazione di brutalità, domenica un veicolo militare in corsa ha investito una folla di manifestanti pro-democrazia a Yangon, uccidendo cinque persone e ferendone almeno 15.

Servono a poco le condanne e gli appelli dei leader occidentali, che hanno parlato di accuse fasulle, di processo farsa. Gli Stati Uniti, l’Unione Europa, il Regno Unito e molti altri, hanno chiesto l’immediato rilascio di Aung San Su Kyi. A 76 anni, la donna ha già trascorso dieci mesi agli arresti domiliciari, ma è accusata di altri 9 crimini e se ritenuta colpevole di tutti i capi di accusa, rischia fino a 100 anni di carcere.

Secondo il leader del governo civile in esilio, conosciuto come governo di unità nazionale, il generale Min Aung Hlaing la vuole vedere morire in prigione. Di sicuro il capo dell’esercito le vuole impedire di candidarsi alle elezioni promesse entro il 2023, perché sa che le vincerebbe di nuovo, come ha fatto nel 2020 e nel 2015. Le accuse contro Aung San Suu Kyi e dozzine di altri parlamentari detenuti sono una scusa dell’esercito per giustificare la presa di potere illegale.

Il verdetto di ieri non convincerà nessuno, al contrario galvanizzerà il movimento di protesta, che ha spronato migliaia di persone ad arruolarsi con i gruppi armati del Paese. Si tratta di un movimento democratico, composto da attivisti giovani, progressisti, coraggiosi e determinati a guardare oltre i leader del passato per trovare ispirazione o motivazione.

“Avete provocato la generazione sbagliata” gridavano decine migliaia di giovani nelle strade di Yangon, di Mandalay, di Naypyidaw nei mesi scorsi. La generazione Z, intelligente, educata, informata, ha destabilizzato il potente esercito. Le proteste si sono ridotte, ma non si sono mai fermate. La giunta ha ucciso più di 1.300 persone e ne ha arrestate più di 10.600, ma l’uso

della forza non è bastato a fermare il dissenso. I guerriglieri e i gruppi etnici ribelli nelle terre di confine del paese rappresentano una sfida più grande del previsto. Le defezioni si moltiplicano a causa dei bombardamenti e degli attacchi contro i soldati in diverse città.

Il Myanmar è ad un punto di non ritorno: la sua gente è disposta a morire pur di non ritornare al buio del passato e sebbene Aung San Suu Kyi rimanga una figura rispettata all’interno del Paese, il governo di unità nazionale ha preso le distanze da alcune delle sue politiche, in particolare quelle verso le minoranze etniche come i musulmani Rohingya, che le sono costate la credibilità sul palcoscenico internazionale.

Aver difeso lo stesso esercito che la tiene ora prigioniera dalle accuse di genocidio contro la minoranza musulmana, è una macchia indelebile che ha cambiato il suo destino. Quando ha deciso di recarsi di persona alla Corte penale internazionale dell’Aia per tutelare i militari dalle peggiori atrocità, pensava forse di guadagnarsi per sempre la fiducia e il sostegno della giunta.

Secondo i suoi avvocati il contatto sporadico con il mondo esterno, la prospettiva di anni in isolamento, cominciano a pesare sul suo stato di salute. Forse è consapevole del fatto che non solo non sarà mai Presidente del Paese per cui ha sacrificato tutto, ma sa che intere generazioni guardano ad un futuro senza di lei.

Nulla è mai come sembra in Myanmar e Aung San Suu Kyi è stata proclamata “finita” più volte per poi tornare trionfante, ma dopo dieci mesi di caos e brutale repressione, è difficile immaginare che sarà così anche questa volta: la parabola discendente di un’icona è il simbolo di un Paese che ha ancora molta strada da fare prima di godere della democrazia che per anni ha rappresentato.






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Loretta Dalpozzo
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