Aurelio Galfetti, il costruttore di spazi
Il lavoro del grande architetto scomparso, attraverso le parole di Mario Botta
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Il volume, intitolato “Costruire lo spazio”, (edizioni Silvana Editoriale) consiste di tre saggi ed un’intervista a Galfetti, ed era inteso come omaggio, per gli 85 anni del maestro, che avrebbe dovuto essere presente all’evento. E invece, la sua assenza, per malattia, ha fatto diventare questa occasione editoriale, un momento di dolente riflessione su un grande personaggio della cultura del nostro paese che, proprio stanotte, se n’è andato per sempre.
Fra i relatori della conferenza, non poteva mancare Mario Botta, che nel suo commosso intervento non ha nascosto anche le divergenze ed i momenti delicati nel rapporto con Galfetti.
Ma il suo discorso, visibile sul sito dell’Accademia, e che parte da alcune considerazioni legate al volume, diventa un ricordo ed un omaggio al “compagno di viaggio”, un ultimo estremo “dialogo a distanza” con l’opera e soprattutto la personalità di Aurelio Galfetti.
Dell’intervento di Mario Botta trascriviamo qui alcune parti.
Il libro “Costruire lo spazio” in sé è un riassunto della poetica di Lio Galfetti. È un testo che analizza tre opere: la Villa Ortensia di Mendrisio del ’74-’76, il lavoro di Galfetti sul contesto fisico-urbano di Bellinzona, con le due case chiamate “Bianco” e “Nero”, e infine, con un saggio del professor Laurent Stalder, non un progetto ma una “tesi territoriale” vorrei dire, per i pensieri e gli schemi che Galfetti ha proposto sul tema dell’Alptransit e che dà una lettura ancora attuale per qualunque struttura il Ticino debba accogliere. Una lettura della topografia esistente in funzione di una sua possibile trasformazione.
Questo libro riassume dunque attraverso tre opere, di cui una virtuale, un semplice disegno che forse non avrà mai un seguito diretto, cinquant’anni di lavoro e un amplissimo spettro di interessi ed approcci di Galfetti verso gli oggetti della sua ricerca.
La Villa cosiddetta “Ortensia”, dell’ONC, ci parla del rapporto fra architettura e contesto. Che cos`è il contesto? Cosa dà il contesto al fatto architettonico? E cosa dà al territorio l’architettura, l’opera costruita, in un rapporto di conflitto diretto e continuo? Ecco i temi cruciali di quest’opera.
La seconda opera, a Bellinzona, ci racconta di un altro rapporto, urbano, di una costruizione di un isolato nel tessuto urbano con l’emergenza di una murata, quella del castello sovrastante. Dunque un rapporto non solo o non più fisico, ma un rapporto di memoria, un rapporto che fa dello spazio e del tempo un’unità, perché l’architetto deve confrontarsi con questa nuova realtà, che non è una realtà del presente, è una realtà che appartiene alla storia della città, alla storia del Paese.
Il terzo caso riguarda una lettura topografica, analizzata, nel volume, da Laurent Stalder, dove si evidenzia l’orografia del Canton Ticino e alcune emergenze, che per l’architetto diventano fondamentali, da trasformare poi in tracciato autostradale, oppure, in questo caso, ferroviario, un percorso che appunto mette in relazione territorio, emergenze, vallate, e intervento urbanistico.
Sono tre elementi che riassumono bene il lavoro travagliato di Lio Galfetti. Travagliato perché, oltre alle difficoltà professionali in un paese relativamente piccolo come il nostro, si è inserito in un momento di trasformazioni epocali.
Pensiamo al Galfetti che esce dal Politecnico di Zurigo, dove ha come punto di riferimento Le Corbusier, di cui era, potremmo dire, “innamorato”. Le Corbusier, per Galfetti, era come una presenza costante, era un atto di fede più che di riferimento tecnico, professionale.
Non c’è elemento nel lavoro di Galfetti che non trovi rispondenza nell’itinerario magistrale di Le Corbusier.
Il titolo che si è voluto dare al volume, del resto, “Come costruire uno spazio”, potrebbe riferirsi anche a Le Corbusier, portando con sé un carico di “immaginario” ma anche l’idea di un “lavoro”, quotidiano, che l’architetto deve svolgere. L’architetto non può fare altro che costruire lo spazio, come il letterato non può fare altro che scrivere, il fotografo non può fare altro che fotografare, il pittore di dipingere.
Da questo punto di vista mi sembra che il libro porti con sé, nei tre esempi che cita, proprio questa idea centrale: che sia uno spazio fondamentalmente “domestico”, come quello di Villa Ortensia, una parte di tessuto urbano, come nel caso di Bellinzona, un più ampio territorio in cui intervenire, come per la linea immaginaria dell’Alptransit, si tratta sempre di “costruire lo spazio”.
Lio Galfetti si è battuto all’interno delle contradizioni della nostra epoca, ha saputo essere uomo sulla terra con i problemi dell’organizzazione dello spazio, ha accompagnato le speranze della nostra generazione e di quella più giovane arrivata con l’Accademia, con questa tensione morale continua: lo spazio è l’oggetto della nostra riflessione, dei nostri pensieri, dei nostri innamoramenti.
Per me Galfetti, con cui ho cercato di dar vita a questa scuola, è stato come un fratello maggiore. Abbiamo parlato pochissimo della scuola, avevamo in comune due o tre punti forse vaghi, ma poi divenuti precisi rispetto al tempo storico: penso ad esempio all’esigenza comune di dare un’impronta più umanistica che propriamente “tecnica” che imperversava alla fine degli anni ’80, all’insegnamento. Erano tempi in cui sembrava che la tecnologia potesse risolvere tutti i problemi: apparivano grandi “conquiste tecnologiche”, ma noi le mettevamo in dubbio.
C’era come un sentimento di scontentezza. Il mondo andava configurandosi in spazi che non ci soddisfacevano, ad esempio, riguardo alle aspettative che nutrivamo nei confronti di un’idea di “spazio domestico” per l’uomo. Non avevamo certezze, avevamo solo dubbi, però erano dubbi basati su alcuni elementi fondamentali.
Coglievamo il soffio di idee che alitavano misteriosamente sopra la consolidata società dei consumi, e capivamo che la qualità della vita passava attraverso una nuova qualità dello spazio.
È questo che ci ha accomunati, istintivamente.
Le scelte più importanti che noi abbiamo fatto le abbiamo fatte bevendo un caffè e discutendo molto con Panos Koulermos, Peter Zumthor (che volevamo avere con noi, come poi è capitato), e rivolgendoci anche a persone “ai margini” del dibattito architettonico vero e proprio, come Carlo Bertelli, o ancora Massimo Cacciari, allora forse un po’ più lucido di quanto non sia oggi.
Poi abbiamo avuto anche fortuna, la fortuna di interpretare un momento storico quasi “magico”, improvvisamente favorevole alla nascita dell’USI e dell’Accademia. Ma all’architetto è richiesto di capire anche questi momenti, e con Galfetti abbiamo vissuto l’esperienza straordinaria di chiamare intorno alla nostra scuola personaggi autorevoli di tutto il mondo, di alzare il telefono, domandare all’uno o all’altro di venire nella nostra scuola, di sentirci rispondere “Vengo”, e poi soltanto chiedere “ma dov’è Mendrisio?”.
Galfetti è stato anche questo, e forse con la sua mancanza, mancherà quel raccordo con un tempo che il Covid ha chiuso. Io sono convinto che c’è un prima e un dopo Covid. Non è vero, come raccontano, che tutto andrà bene, che tutto tornerà come prima. La batosta che noi viviamo come condizione sanitaria è una batosta morale, che mette in discussione il nostro sistema di vita, le nostre conquiste.
La Scuola dev’essere in grado di affrontare anche questo; una buona scuola deve porre problemi, guai a dare le soluzioni. Le soluzioni le lasciamo alle scuole professionali, alle scuole tecniche, all’Ordine degli Architetti. Una buona scuola deve sollevare i problemi, non aver paura di doversi trovare, magari, senza soluzioni definitive.
Luis Kahn, alla nostra domanda su cosa si dovesse intendere per “scuola” (di architettura, naturalmente) rispose: “La scuola sono due uomini che si parlano sotto un albero”: insomma, il principio della comunicazione e, con l’immagine dell’albero, quello della protezione.
Ecco, noi dobbiamo tornare a questo semplice concetto, per essere uomini sulla terra.
Grazie Lio Galfetti.
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