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Per Mosca – quella imperiale, quella sovietica, quella post-comunista – il vincolo con l’Ucraina sotto forma di dipendenza o di alleanza condivisa è sempre stato considerato essenziale per la sicurezza dell’impero. Anche il ‘regalo’ della penisola di Crimea all’Ucraina deciso da Kruscev nel 1954 in realtà rientrava in questo schema, poiché il suo principale scopo era quello di convincere i dirigenti comunisti locali, guidati da Nikolaj Podgorny, a rimarginare le ferite di un passato recente: il filo nazismo ucraino, che offrì 80.000 combattenti alle occupanti Divisioni SS, e le purghe staliniane, con tanto di pulizia etnica e deportazioni di massa, soprattutto contro i contadini ribelli in quello che era ‘il granaio dell’Urss’. 

Piccolo promemoria storico che ci fa capire meglio un articolo pubblicato qualche giorno fa sul sito web del Cremlino dallo stesso Vladimir Putin: con titolo inequivocabile, “Sull’unità storica  dei popoli russo e ucraino”, testo di cinquemila parole in cui il ‘neo-zar’ sostiene la tesi che “le forze del male” – dalla comunità lituano-polacca, all’Austria-Ungheria, a Hitler, all’Occidente postbellico – “hanno sempre voluto separare un popolo unito dalla lingua, dalla fede cristiano-ortodossa, e da una famiglia reale –, dividendoli in russi e ucraini”. Senza tener conto di questa centenaria filigrana che fa da sfondo anche alle attuali tensioni, sarebbe più difficile capire appieno il surriscaldamento della crisi che si sta consumando fra Mosca da una parte, Ucraina Europa e Stati Uniti dall’altra, a sette anni dalla riannessione russa manu militari della setssa Crimea e l’inesaurito conflitto armato a bassa intensità nella parte russofona della regione ucraina del Donbass. Né, probabilmente, si capirebbe una famosa battuta dell’ex consigliere per la sicurezza americana Zbigniew Brzezinski: “la Russia senza l’Ucraina cessa di essere un impero, ma con l’Ucraina subordinata lo diventa automaticamente”.

L’esito finale dell’attuale escalation, esasperata dall’afflusso di oltre centomila soldati russi lungo i confini dell’ex repubblica sovietica (che Mosca continua a ritenere la culla stessa della cultura russa), e il pubblicizzato sospetto che Putin possa decidere un intervento militare in Ucraina (obiettivo principale, imporre un corridoio per collegare via terra la Crimea alla ‘patria ritrovata’) divide gli analisti. Sostanzialmente: fra chi ritiene improbabile un atto di forza che esporrebbe Putin ad una situazione internazionalmente indifendibile oltre a ulteriori e più pesanti sanzioni occidentali; e, sull’altro fronte, chi non esclude affatto che il leader del Cremlino sia davvero tentato dallo ‘schema 2008’ (evocato di recente e non casualmente da Fedor Lyukyanov, archietto della politica estera putiniana), anno in cui l’esercito russo stroncò in meno di una settimana il tentativo della Georgia di Mikhail Saakashvili di riprendersi la sovranità delle due regioni autonome dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale. Stavolta al posto di Saakashvili c’è il presidente ucraino Volodimir Zelensky, ex attore comico, finito nella lista dei ‘Pandora papers’ sui grandi evasori fiscali, in perdita di popolarità interna proprio per lo stallo del contenzioso (anche armato) con la Russia, e che oltre alle armi occidentali invoca l’integrazione del suo paese nella Nato.

Una prospettiva, questa, che rappresenta la principale e insormontabile ‘linea rossa’ evocata da Putin, che considera una sorta di dichiarazione di guerra l’eventuale inclusione dell’Ucraina ribelle nell’Organizzazione dell’Alleanza Atlantica, con basi militari, ha protestato il presidente russo, che ospiterebbero missili ‘in grado di colpire Mosca in cinque minuti’. L’allargamento della Nato a Est dopo l’implosione dell’Urss rappresenta per il Cremlino la minaccia che tutto il ventennio putiniano ha finora inutilmente cercato di stoppare. Un espansionismo militare verso i confini della Russia che in realtà ha sollevato dibattiti e dissensi anche negli Stati Uniti: per i rischi che comporta e per quanto alimenta delle frustrazioni di una ex potenza ossessionata dal recupero della sua dimensione imperiale, che per Vladimir Putin rappresenta l’assoluta priorità, ripagato dallo stato d’animo della nazione. Per potenzialità, un’autentica polveriera.

Motivo per cui, a soli sei mesi dal summit di Ginevra, prematuramente celebrato come il ‘ritorno al dialogo fra i due nemici della guerra fredda’, la video-conferenza Biden-Putin di domani è di cruciale importanza per disinnescare un’escalation fra le due superpotenze che in fin dei conti si gioca sul terreno di sempre: l’Europa, al tempo stesso refrattaria a seguire una posizione americana troppo combattiva, e comunque preoccupata da un’offensiva politica russa che si snoda dai confini dell’Ucraina, a quelli della Polonia, e persino alle terre balcaniche dove non a caso la componente serba, cristiano-ortodossa, e pro-russa di Bosnia lavora in favore di una minacciosa secessione.






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