Perché Gaza è ancora più isolata

Perché Gaza è ancora più isolata

Nella Cisgiordania già piegata dalla crisi aumentano le violenze dei coloni e la povertà


Redazione
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Perché Gaza è ancora più isolata

Di Francesca Mannocchi, La Stampa

Venerdì scorso, Binyamin Achimair, un quattordicenne israeliano, è scomparso alle 6.30 del mattino da Malachi Hashalom, un avamposto di coloni israeliani nei pressi di Ramallah, centro amministrativo della Cisgiordania. Secondo la ricostruzione dei media israeliani il giovane si era allontanato per pascolare il bestiame e i suoi familiari hanno lanciato l’allarme quando hanno visto tornare una pecora sola, non accompagnata né dal resto del bestiame, né dal ragazzo. Migliaia di unità di volontari si sono unite alle ricerche per ore, finché, il giorno dopo, con l’aiuto di un drone, il corpo è stato ritrovato nelle vicinanze.

Dopo il ritrovamento i coloni israeliani hanno scatenato una reazione furiosa contro le comunità palestinesi, secondo il gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din 10 villaggi in Cisgiordania sono stati attaccati. In particolare, ad al-Mughayyir, sono state bruciate 12 case e varie automobili, a Qusra, a sud di Nablus, tre case e diverse automobili sarebbero state danneggiate dagli incendi; e a Beit Furik, a est di Nablus, ci sono state segnalazioni di scontri tra coloni e palestinesi. Nel villaggio vicino, Douma, sono state date alle fiamme 15 case e 10 fattorie e, secondo fonti dell’Associated Press, l’esercito giunto sul posto ha protetto i coloni anziché tentare di fermarli. Il risultato degli scontri, oltre ai danni fisici dei villaggi, è di 25 feriti e una vittima: il palestinese Jehad Abu Alia, di 26 anni.

Anche un fotografo del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, Shaul Golan, arrivato al villaggio di al-Mughayyir per documentare gli eventi, è stato attaccato da un gruppo di coloni armati. Ha dichiarato al suo giornale che passeggiava cercando di scattare foto quando un gruppo di uomini mascherati è uscito da un campo di ulivi e ha cominciato a bruciare le case vicine. Si è nascosto sotto un tavolo mentre i coloni si avvicinavano e avvertiti da un bambino lo hanno picchiato, rompendogli un dito e sequestrando la borsa della sua attrezzatura per bruciarla. Hanno perquisito le tasche per portare via le schede di memoria nascoste. Golan ha cominciato a gridare di essere ebreo, non arabo. Gli hanno risposto: e non ti vergogni?

«Erano 20, 30, alcuni indossavano uniformi dell’esercito, mi hanno preso a calci in testa e nello stomaco, lasciandomi nudo, gettando via le chiavi della moto» per impedirmi di tornare a casa.

È solo l’ultima drammatica cronaca della Cisgiordania in fiamme, l’altro fronte della guerra, dove dopo il 7 ottobre 460 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano e dove nelle ultime ore i gruppi in difesa dei diritti umani affermano che i palestinesi siano stati «abbandonati alla violenza selvaggia delle milizie di coloni armati».

«Una forma di violenza autorizzata dallo Stato», secondo Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina. Una violenza che non è scalfita dalle sanzioni, anche perché colpendo i singoli non colpisce l’impalcatura complessiva, cioè i funzionari, i leader politici che hanno costruito l’impunità su cui le loro azioni si poggiano e hanno anzi facilitato la violenza armata dei gruppi dei coloni. Distribuendo armi d’assalto e continuando a sostenere l’espansione delle colonie illegali.

Economia sull’orlo del baratro
Poco meno di un mese fa, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), un’agenzia delle Nazioni Unite focalizzata sul miglioramento degli standard lavorativi in tutto il mondo, ha dichiarato che il conflitto israelo-palestinese stesse spingendo il tasso di disoccupazione palestinese nella Cisgiordania occupata e a Gaza a oltre il 50%. Tradotto in numeri significa mezzo milione di posti di lavoro persi e – dice il rapporto – se la guerra continuasse fino alla primavera inoltrata raggiungerebbe un tasso record del 57%.

Ruba Jaradat, Direttrice regionale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro per gli Stati arabi ha affermato, a marzo, che la distruzione delle infrastrutture, delle scuole, degli ospedali e delle imprese a Gaza ha «decimato interi settori economici e paralizzato l’attività del mercato del lavoro, con indicibili ripercussioni sulla vita e sui mezzi di sussistenza dei palestinesi per le generazioni a venire». In Cisgiordania, negli ultimi mesi sono 100 mila i posti di lavoro andati persi, per il blocco dei permessi e quello fisico dei lavoratori impediti a lasciare le proprie comunità dai più di 650 check-point permanenti e temporanei in tutto il territorio, che hanno aggravato la crisi economica, immobilizzando di fatto i lavoratori. Dal giorno del massacro in Israele, adducendo ragioni di sicurezza, i palestinesi in Cisgiordania, che abitualmente lo facevano, non possono recarsi in Israele, privati della fonte primaria, spesso unica, di reddito e, a sei mesi dall’inizio della guerra a Gaza, l’intera economia è sull’orlo del baratro.

Nella sola Nablus, come riporta il Washington Post, le forze israeliane da tempo controllano le quattro uscite dalla città, due sono chiuse dall’autunno, le altre aperte a singhiozzo e chiuse arbitrariamente. Nelle altre strade, quelle fuori pista, in campagna, hanno installato cancelli meccanici o posto cumuli di terra e massi per bloccare il passaggio in entrata e in uscita, con la conseguenza che i villaggi sono tagliati fuori gli uni dagli altri, e i lavoratori rimangono bloccati ore nel tentativo quotidiano di lasciare la città. Secondo la Banca Mondiale, i salari dei lavoratori transfrontalieri ammontano a 5,5 miliardi di dollari all’anno, circa un terzo dell’economia combinata della Cisgiordania e di Gaza, territori in cui il prodotto interno lordo pro capite nel territorio ammonta a soli 4.500 dollari all’anno, mentre oltre il confine, in Israele, è pari a circa 55.000 dollari.

Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, Israele ha imposto ampie restrizioni all’economia palestinese, ha revocando i permessi di lavoro di oltre 170.000 lavoratori palestinesi, secondo la Banca Mondiale, così che decine di migliaia di persone che lavoravano illegalmente in Israele sono ora senza lavoro, secondo il gruppo israeliano per i diritti B’Tselem, negli ultimi cinque mesi Israele ha eretto dozzine di nuovi posti di blocco militari e bloccato l’accesso alle città e ai villaggi sulle strade principali e l’aggravarsi delle restrizioni ha soffocato il commercio e la produzione locale, impedendo ad altri 70.000 palestinesi di tornare fisicamente al posto di lavoro.

In più il governo israeliano ha trattenuto per mesi le entrate fiscali che raccoglie per l’Autorità Palestinese, perciò l’AP, che controlla parti della Cisgiordania, ha tagliato i salari dei suoi circa 140 mila lavoratori che nell’ultimo trimestre dello scorso anno non hanno ricevuto stipendio. «Il colpo peggiore alla nostra economia dalla fondazione dell’Autorità Palestinese, nel 1994», ha detto Manal Farhan, vice ministro dell’economia dell’AP.

I segni della mancanza di liquidità ci sono tutti: donne che provano a vendere oro nelle botteghe delle città, i bambini mendicano o vendono caramelle ai bordi delle strade, i negozianti con una lista di debitori che si allunga ogni giorno di più, madri di famiglia che provano a raccogliere metalli e lamiere da rivendere per sfamare i figli, perché gli uomini sono a casa, ormai in maggioranza disoccupati.

Il rischio è che le difficoltà economiche si traducano in tensioni sociali.

Khalil Shikaki, accademico che dirige il Centro palestinese per la politica e la ricerca sui sondaggi a Ramallah, teme che la crisi economica possa diventare un ulteriore ingrediente «di una miscela facilmente infiammabile», numeri alla mano. Intervistato un mese fa dall’emittente americana NPR ha sottolineato che dall’inizio della guerra, il consenso intorno ad Hamas in Cisgiordania è più che triplicato, dal 12%, pre 7 ottobre, al 42% secondo i più recenti sondaggi. Dati che si combinano agli attacchi dei coloni che portano un numero crescente di palestinesi a ritenere che non sia possibile una soluzione diplomatica alla crisi, che l’unica sia la violenza come risposta alla violenza.

«La Cisgiordania è in ebollizione», aveva detto Shikaki, «e aspetta solo la scintilla che potrebbe portare a una grande esplosione».

«Il popolo palestinese è abituato alle crisi», ha detto Iyad Kordi, segretario generale della Camera di Commercio di Nablus, ma «quello che vedo adesso, non l’ho mai visto». Quest’inverno, i funzionari locali hanno affermato che centinaia di famiglie hanno contrattato per la prima volta denaro, cibo o riscaldamento di base».

Il timore è che la scintilla possa essere determinata dalla sovrapposizione delle crisi: la disperazione economica, l’espansione degli insediamenti, l’annessione di terre palestinesi senza precedenti, i disordini e gli scontri quotidiani tra palestinesi e coloni, il controllo dei movimenti. Che tutto questo, cioè, stia inesorabilmente portando, soprattutto i più giovani dei campi profughi impoveriti, a unirsi ai gruppi armati in un presente che vedono sempre più privo di soluzioni politiche e riempito solo da povertà e violenza.

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