A Schignano le radici autentiche del carnevale
Breve viaggio “in maschera” attraverso la Val d’Intelvi sulle note di Gertrud Leutenegger e Davide Van de Sfroos
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Breve viaggio “in maschera” attraverso la Val d’Intelvi sulle note di Gertrud Leutenegger e Davide Van de Sfroos
• – Michele Ferrario
Un evento musicale che celebra chi non canta ma presenta e organizza: è il rito che innalza ad eroe la tinca
• – Redazione
Nel Festival vinto da Angelina Mango le canzoni hanno un posto sempre più marginale e cedono il passo, ad un brusìo indistinto, in cui si perdono anche rari momenti ed artisti di qualità. Alla fine, poi, chissà come, può anche affermarsi chi se lo merita
• – Gianluca Verga
La questione centrale sollevata dalla protesta degli agricoltori europei
• – Redazione
All’atto finale della Coppa d’Africa, le riflessioni su benefici e storture dell’evoluzione del calcio nel continente
• – Enrico Lombardi
Viaggio ad Ivrea, fra ricordi e nostalgia di quel che fu la sua storia e la sua vita fiorita attorno alla più innovativa e visionaria azienda italiana, la Olivetti, che rimane un esempio di straordinaria e lungimirante imprenditorialità sociale, un’occasione perduta per miopia politica ed economica
• – Paolo Di Stefano
Lo schiavismo ha segnato l’attività di non pochi coloni svizzeri d’oltreoceano nell’Ottocento, anche quando la pratica della schiavitù era stata sanzionata e abolita da Francia e Regno Unito. Dal Brasile un esempio concreto illustrato in un reportage di RTS - Di Giorgio Tognola
• – Redazione
Se è vero che le religioni non sono eterne, e se è vero che in Svizzera i credenti sono sempre meno, resta lecito confutare la tesi, semplicistica, che oggi prevalgano atei o agnostici, prendendo atto, piuttosto, dell’affermazione di una nuova forma di religione: quella dettata dal capitalismo
• – Silvano Toppi
Sei ulteriori ragioni per smentire categoricamente le tesi infondate degli avversari della 13esima AVS - Di Graziano Pestoni
• – Redazione
L’esistenza di una nazione indipendente non sarà mai accettata dal presidente russo, lasciando aperta la porta di altre aggressioni militari
• – Yurii Colombo
Breve viaggio “in maschera” attraverso la Val d’Intelvi sulle note di Gertrud Leutenegger e Davide Van de Sfroos
Un’esplosione temporanea, apparentemente incontrollata, che serviva invece proprio al contrario, a tenere tutto sotto controllo. L’epifania momentanea del desiderio-sogno di un nuovo modello di società e di convivenza. L’occasione una tantum per mettere in discussione le convenzioni su cui si basa la convivenza stessa, che, ben presto, però, si riaffermano riportandoci all’ordine costituito da quelle stesse convenzioni. Finita la buriana, altre regole, altri valori, altre gerarchie, altre maschere, riprendono il sopravvento. A pensarci bene, forse proprio per questo il Carnevale è stato inventato: per consentire all’uomo – dopo qualche notte di bagordi, in cui ha assunto un’identità diversa dalla sua – di rientrare nei ranghi sociali ai quali appartiene. Il limite temporale, che fa del Carnevale una breve parentesi nel calendario, viene esplicitamente indicato nelle locuzioni legate a questa festa: il poeta Orazio (Carmina) scriveva Dulce est desipere [dimenticare la saggezza] in loco, laddove in loco è da intendere come al momento opportuno. Gli fa eco Seneca (Aliquando et insanire iucundum est: di tanto in tanto è bello persino fare pazzie), ripreso da Sant’Agostino (Tolerabile est semel in anno insanire).
L’interrogativo iniziale sul senso di questa ricorrenza se lo era posto, oltre mezzo secolo fa, anche Italo Calvino nell’articolo Il mondo alla rovescia scritto per la rivista “Pirelli”: “Chi pensa più al Carnevale? Nella vita contemporanea credo che siano sempre meno le persone che ricordano o s’accorgono se è Carnevale o Quaresima. Nei libri, invece, mi capita di leggere sempre più spesso riferimenti al Carnevale, come se oggi che è tramontata dalle nostre esperienze dirette, questa costumanza si caricasse di tutto il suo significato, diventasse un elemento necessario per comprendere i fondamenti etnologici della civiltà occidentale” (a. XXIII, nn. 1-2, gennaio-febbraio 1970, pp.50-67).
Il Carnevale, insomma, si conserva non nelle sue infinite declinazioni sempre più commerciali, simili tra loro da nord a sud, da est a ovest, condotte sul filo di una colonna sonora ripetitiva e trasversale, fast food e fast rite, ma in letteratura e nelle arti: pretesto alla segnalazione che segue è proprio un’opera letteraria (tra le migliori degli ultimi anni), Fuggiaschi tardivi, di Gertrud Leutenegger (Armando Dadò Editore), di cui abbiamo già parlato.
Nel lungo racconto si contrappongono, con grande forza narrativa e visiva, il silenzio della morte, confinato nella gelida cappella di un piccolo villaggio della Valle di Muggio, alle grida scomposte, alle maschere, agli oltraggi in atto, pochi chilometri più in là, a Schignano, Comune della Val d’Intelvi, in provincia di Como [cartina], a ridosso del confine con la Svizzera; una valle di artisti e artigiani (architetti, scultori, muratori, scalpellini), le cui figure migliori, sin dall’anno Mille, la povertà ha portato a Milano e, in una successiva ondata, tra il 1550 e il 1750, in tutta Europa, in un trionfo di Manierismo e Barocco dai tratti essi stessi carnevaleschi. A questa valle – così simile, nella propria diaspora forzata, a molte valli ticinesi – ha dedicato affetti e attenzione la filologa e scrittrice Maria Corti (1915-2002): la sua abitazione a Pellio, in cui trascorreva l’estate, è oggi aperta al pubblico grazie a un gruppo di amici ed ex allievi, i cosiddetti Cortigiani, che l’hanno risanata e ne animano le iniziative.
Il Carnevale di Schignano – che si conclude martedì 13 febbraio con la spettacolare sfilata e con il rogo liberatorio del Carlisèp (il fantoccio personificazione stessa del Carnevale) – è dunque l’occasione per visitare un territorio per tanti aspetti così simile al nostro, con il quale i rapporti sono secolari: “Bastava superare il Sasso Gordona” annota Natale Perego “per entrare in Svizzera. Qui gli Schignanesi erano specializzati come teciàt (…). Il trattamento ricevuto dagli svizzeri è unanimemente giudicato più discriminante, soprattutto quello del Canton Ticino, mentre migliorava man mano che ci si addentrava nei cantoni tedeschi. Le vie d’emigrazione verso la Svizzera erano ben note, le stesse praticate dai contrabbandieri, un’attività fiorente in paese che costituiva per qualcuno un’alternativa all’emigrazione”.
Proprio l’emigrazione stagionale ha fatto sì che la Comunità schignanese si riunisse, in passato, soltanto nei mesi invernali: questa circostanza ha portato alla nascita di un ciclo festivo che, prima e dopo il Natale, scandiva il calendario dei mesi bui e preparava alla rinascita primaverile che, per gran parte delle famiglie, era anche il momento della separazione e del distacco. A caratterizzare il Carnevale di Schignano sono le sue maschere in legno, che le persone si calano sul volto per nascondere la loro identità e completare il travestimento. Questi capolavori di scultura popolare sono opera dei pochissimi artigiani locali rimasti, sia di comuni cittadini che, sin da ragazzi, si mettono alla prova. Firmate o siglate e datate al loro interno, riconoscibili dagli habitués, in grado di identificarne immediatamente l’autore, le maschere rappresentano le due categorie – i Bèi e i Brütt – che si affrontano/contrappongono nella rappresentazione scenica del Corteo. A sottolineare i legami transfrontalieri di civiltà, due di queste maschere sono state donate e oggi esposte nel Museo etnografico della Valle di Muggio a Bruzella.
Curate, levigate, cromaticamente più chiare e luminose, tra toni di giallo e di ocra, le prime; più dure nei lineamenti, segnate da solchi profondi, bitorzolute, sproporzionate, per non dire deformi, le maschere dei Brütt, in cui prevalgono il verde scuro, il marrone, il nero, a sottolinearne plasticamente il ghigno beffardo e inquietante. “Capita di frequente” spiega ancora Perego “che la maschera di brutto sia il risultato non voluto di una maschera di bello, rovinata nel corso della lavorazione. Infatti, par di capire che ogni scultore ha sempre in testa il progetto di una maschera di bello perché è in questo tipo di maschera che si individua la massima bravura artistica, secondo i canoni comunemente riconosciuti dalla gente del posto. Solo più raramente si lavora di primo acchito una maschera di brutto, forse perché ritenuta più facile da realizzare”.
Figure principali sono: la ciocia, moglie devota e servile del Bèl, tenuta costantemente al guinzaglio, il volto completamente annerito, l’unica senza maschera e l’unica a parlare, a ribellarsi per l’occasione contro il marito: “Töt i sir te se ‘n gir ‘nzèma a i altri dòn a divertiset, a ciucà. Lassa stà chela tusa, lendenùn, pütané”; i due sapör (zappatori), che aprono il Corteo); la sigürtà (colui che interviene se il carnevale dovesse degenerare). E ci sono i costumi: anch’essi tipizzati secondo un canone tramandato da secoli. Quello dei Bèi è coloratissimo, luccicante, quasi sfarzoso, completato da grandi ventagli, parasole, tabacchiere e da un ampio cappello ornato di fiori e nastri variopinti in grado di esprimere ricchezza e potenza, di calamitare sguardi ammirati. I Brütt si aggirano per le vie del villaggio coperti da una tuta da lavoro imbottita di fieno, muniti di campanacci e altri oggetti sorprendenti e assurdi: mestoli, battipanni, cianfrusaglie d’ogni sorta, ossa e corna di animali. Rappresentano i più deboli, i migranti, i marginali. Oggi si travestono da Brütt soprattutto ragazzi e giovani, che in loro si identificano: quasi un transfer che rende attualissime le disparità sociali di un passato tuttora presente.
Se vi capitasse, se ne aveste il tempo, andate a Schignano, martedì prossimo: possibilmente già di primo mattino, per assistere alla vestizione e agli ultimi preparativi di un rito che si rivelerà straordinario.
Il Blasco si racconta in una bella docuserie visibile da qualche giorno sulla piattaforma di streaming “Netflix”
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