La storiografia dell’emigrazione ticinese tra Otto- e Novecento continua a dare nuovi frutti. Dopo i recenti saggi di
Lorenzo Planzi e di
Danilo Baratti e Patrizia Candolfi, anche uno dei precursori di questo filone di ricerca riprende il filo di un discorso mai interrotto. A
Giorgio Cheda (nato a Maggia nel 1938) dobbiamo infatti due ponderose pubblicazioni uscite nel 1976 e nel 1981 dedicate all’emigrazione in Australia (nuova edizione Armando Dadò, 2023), rispettivamente in California (nella fattispecie pubblicando una corposissima raccolta di lettere). Lo stesso tema, prevalentemente il capitolo californiano, è poi stato stato da Cheda ripreso più volte per le Edizioni Fontana, senza dimenticare la parentesi del 1995 dedicata all’agronomo morcotese Michele Raggi, testimone della Rivoluzione comunista in Russia.
Recentemente, Cheda ha pubblicato I valmaggesi in California! L’avventura – Il successo, un nuovo opuscolo in cui ripercorre ancora una volta le vicende di un flusso migratorio iniziato attorno alla metà del XIX° secolo, di cui furono protagonisti decine di contadini, soprattutto sopracenerini, in sempre maggiore difficoltà in Patria per le sanzioni imposte dall’Austria (6’000 ticinesi espulsi dall’Italia per ordine del cancelliere Metternich), il divieto di esportare i loro prodotti e di importare il grano, ma anche le sempre più frequenti alluvioni in un territorio fragilizzato dai massicci tagli boschivi per far posto alle greggi di capre, anch’esse peraltro indispensabili.
Quelle prime fughe non mancarono di allarmare il Governo ticinese: travisando in buona parte la realtà, nel 1870 tentò di arginarle ammonendo che “pochi sono coloro cui arride fortuna, e molti dei nostri concittadini sospirano di poter raggranellare quel tanto che loro è necessario per fare ritorno alla terra nativa”. Ben diverso, anzi di segno opposto, il passaggio di un discorso del Consigliere federale Giuseppe Motta risalente al 17 agosto 1924: “La nostra rigogliosa colonia nella lontana California, composta di oltre trentamila persone le quali, svolgendo la loro attività in condizioni favorevoli d’ambiente, sono in gran numero pervenute a un’agiatezza invidiabile pur conservando fino alla terza e alla quarta generazione inalterabile il culto dell’antica patria”.
Oggetto della sua tesi di dottorato a Friburgo, la fuga verso l’ingannevole Eldorado australiano (il Gold Rush, poiché in buona parte cercatori d’oro) si è protratta, grosso modo, tra il 1850 e il 1860 coinvolgendo non più di 2’500 persone, alle quali – ricordava lo stesso Cheda in un’intervista del 10 marzo 2009 a Swissinfo – venivano promessi “guadagni fino a 20 volte superiori al reddito giornaliero ticinese (in media 1,50 franchi). Le condizioni durante il viaggio erano inoltre pessime e i termini del contratto non erano rispettati. Alcuni emigranti non hanno esitato a definire i responsabili delle cosiddette agenzie di emigrazione, che organizzavano la trasferta, dei «macellai di carne umana»”: pensando a quanto succede oggi sulle rotte meditrerranee verso l’Europa, la storia sembra ripetersi.
Ben diversa – la nuova, agile pubblicazione di Cheda lo conferma con abbondanza di documenti ed esempi – la storia della nostra emigrazione verso l’ovest degli Stati Uniti, avvenuta lungo l’arco di oltre un secolo. Senza dimenticare quanti in California sbarcarono direttamente dopo l’infelice esperienza australiana, non si contano i casi di interi nuclei familiari o provenienti dallo stesso villaggio valmaggese che, sollecitati dal successo dei precursori, decisero di seguirli e di raggiungerli. “Una persona tenta l’avventura in un paese: se va bene altri seguiranno. Chi ad esempio riusciva ad acquistare un ranch in California, scriveva a casa chiedendo degli aiuti (mungitori) per portare avanti i lavori” ricorda, nella stessa intervista, lo storico locarnese. Contrariamente alla disastrosa – per molti – impresa australiana, chi emigrava in California riusciva non solo a ripagare, in tempi relativamente brevi, il prestito ottenuto per affrontare il viaggio transatlantico, ma anche a costruirsi floride aziende agricole (ranch) in contee come Sonoma e Marin. La storiografia parla di circa 27 mila emigrati ticinesi, dei quali un migliaio è riuscito a diventare proprietario di una superficie complessiva pari ai 2/3 di quella del Canton Ticino.
I documenti pubblicati nel nuovo libro descrivono successi e fortune di questi emigrati. Uomini e anche donne: “Anche qui si lavora ma lè un lavoro di donna e invece lì si deve lavorare quello che fa il cavallo qui, povere donne”: lo scrive Rosina Peini, da San Francisco, il 30 dicembre 1900, dicendo di guadagnare 100 franchi al mese, cifra che in Ticino racimolava in un anno. Un altro esempio (ortografia e sintassi della trascrizione sono fedeli all’originale), la lettera che Louis e Paolo Vanoni scrivono, già il 29 aprile 1877, alla loro mamma rimasta ad Aurigeno: “Il grano cresce a meraviglia laratura è quasi terminata e ne abbiamo seminato un area di circa 500 acre e se non succede una qualche inaspettata ne avremo una ricolta straordinaria. Questo sarebbe l’anno di diventare ricchi per motivo della guerra in Europa di vendere il grano a peso doro”.
Trent’anni dopo, neanche il terremoto che il 18 aprile 1906 devastò San Francisco scosse le granitiche certezze e l’ottimismo di un altro emigrato, Attilio Martinelli: “Io fabbricherò di nuovo appena si potrà cominciare, al presente tengo come una dozzina di uomini a discombrare il posto. Non si perdiamo punto di coraggio, e sebbene la perdita è dura non conviene a discoragiarsi. Possiamo chiamarsi fortunati che possiamo ancora raccontarla e del resto affari ne faremo ancora. Io considero le mie perdite a un $ 8000 ma se niente di più serio succederà non ho timore di potermi ancora rialzare e cominciare subito”.
L’affermazione dei valmaggesi è ulteriormente comprovata da una cartina topografica dei loro possedimenti terrieri californiani nel 1925. Chi volesse sapere di più delle singole storie di 418 dei nostri intraprendenti connazionali partiti per il West non ha che da riprendere in mano il secondo volume dell’opera di Cheda L’emigrazione ticinese in California, I ranceri (Edizioni Fontana, 2005), dove viene ricostruita la loro biografia. Rimesse pari a milioni di scudi venivano inviati alle famiglie rimaste in valle, che hanno portato alla nascita di sportelli bancari anche nei villaggi più discosti (Cavergno, Broglio, Peccia). Nel 1914, però, 3 delle 7 banche ticinesi fallirono, quasi dimezzando il loro capitale complessivo, con conseguenze devastanti, ben descritte da Angelo Rossi (Autopsia degli scandali bancari della belle époque, in Tessere. Saggi sull’economia ticinese, Fondazione Pellegrini-Canevascini, 2010, pp. 129-152), che così commenta: “Il meccanismo di base delle speculazioni bancarie non è cambiato, ne è cambiato l’animo umano, cosicché quello che è capitato ieri non è detto che non possa ripetersi domani”. Come lui, anche Cheda affonda il coltello paragonando quella situazione alla “più recente crisi della terza piazza finanziaria svizzera”.
Prima di concluderlo, Giorgio Cheda aggiunge alcune riflessioni al suo saggio, che termina tra luci e ombre: “Il successo dei ranceri non dovrebbe farci dimenticare l’eliminazione di 200 mila aborigeni con la pelle colorata che popolavano il secondo paradiso (…). Una memoria in gran parte calpestata e eliminata dai conquistatori (…) polverizzando così tradizioni millenarie. Una ragione in più per analizzare, con spirito critico, una storia scritta dai vincitori; connetterla a quella dei vinti spalancando porte e finestre ai vari localismi, etnocentrismi e nazionalismi per contemplare l’universo stellato che abbraccia tutte le creature. Approfittare pure del patrimonio ereditato dalle civiltà rimaste in equilibrio con l’ambiente per costruire un futuro più rispettoso della natura e dei diversi. Un impegno politico, ma soprattutto etico anche al tempo dei tweet, selfie e fake news perché non c’è cultura senza libertà e non c’è libertà senza la ricerca della verità e l’assunzione della responsabilità”.
È il coautore del volumetto, Silvano Toppi, a riconoscere, anche in queste conclusioni, l’eredità del nuovo saggio di Cheda, in cui “una realtà o una storia locali introducono in un significato universale e perciò stesso acquisiscono un valore che va oltre quel periodo storico, oltre quell’”avventura” o quella “conquista” testimoniata sia dai fatti (…) sia dalle vive narrazioni “in presa diretta” (si direbbe oggi con linguaggio televisivo). Perché mai? Perché quel valore continua ad avere (o dovrebbe continuare ad avere) forza edificante o, si potrebbe anche osare dire, pedagogica, tanto per l’economia quanto soprattutto per la società. Per l’attualità socioeconomica e politica, insomma. Lo stesso Cheda approda, con perfetta logica o coerenza di discorso, su quella conclusione. Che è di storico non pietrificato, ma pulsante, che, come vuole, “interroga il passato con le inquietudini dell’attualità per contribuire a forgiare comunità più conviviali””.
Giorgio Cheda – Silvano Toppi, I valmaggesi in California! L’avventura – Il successo, Edizioni Oltremare, Locarno-Monti, 2023
Nell’immagine: la Martinelli’s Band, fondata nel 1875 e formata da un gruppo di valmaggesi, che allietava le feste dei nostri connazionali espatriati in California