Banlieues francesi, le fiamme dell’odio e della disuguaglianza
Cosa c’è, anche di nuovo rispetto al passato, in quest’ultima rivolta delle periferie dopo l’uccisione a freddo del minorenne Nahel da parte di un agente
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Cosa c’è, anche di nuovo rispetto al passato, in quest’ultima rivolta delle periferie dopo l’uccisione a freddo del minorenne Nahel da parte di un agente
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Ancor più che integrare, addirittura assimilare, questo era il proposito iniziale. Un progetto largamente incompiuto. Quindi esplosivo. Come confermò la più lunga e spettacolare rivolta delle banlieues, quella dell’ottobre 2005, innescata dalla morte di due “beurs”, quindi di origine magrebina, che si erano infilati in una centralina elettrica per sfuggire agli agenti. Sarkozy liquidò la protesta parlando di “canailles”, e contro le “canaglie” proclamò lo stato d’emergenza. Ci vollero però diverse settimane di scontri e devastazioni per venirne a capo.
Ci risiamo, dopo altre e meno estese ribellioni. L’uccisione a freddo, a Nanterre, del 17enne Nahel da parte di un poliziotto (che gli ha sparato per non essersi fermato a un posto di blocco) ripropone oggi le immagini di 18 anni fa, ribellione e violenza in tutte le periferie del paese: auto ed edifici incendiati, saccheggi, scontri con le forze dell’ordine, furto in un’armeria, parziale coprifuoco, trasporti pubblici bloccati. Fiammata che obbliga Emmanuel Macron a mobilitare oltre quaranta mila uomini in assetto anti-sommossa, a inviare addirittura i blindati, a fronteggiare un’altra pagina nera dopo quelle dei “gilet gialli” e delle proteste per l’innalzamento a 64 anni dell’età pensionabile.
Così brucia di nuovo la Francia, paese in cui le micce corte della rivolta sembrano far parte del “dna” nazionale. Però le banlieues sono le banlieues. Non un fatto occasionale, episodico, in un senso o in un altro superabile. Ma una rabbia, una ferita sociale profonda e permanente. Irrisolta nella sua sostanza, e soprattutto per la sua componente giovanile. Più marginalizzazione, più precariato, più difficoltà a studiare, più prematuri abbandoni scolastici, più problemi per trovare un impiego (basta il cognome arabo o africano per alzare barriere), salari più bassi (dal 10 al 20 per cento, secondo un’inchiesta di pochi anni fa dell’inglese “Guardian”). E una polizia più spiccia, più manesca, più violenta quando, in forze, decide di entrare (lo fa raramente) in quest’“altra Francia”, la Francia del risentimento. Per il cittadino francese comune, una realtà da ignorare. Per tutti i governi, di destra o di sinistra, molte promesse mancate sulla volontà politica di disinnescarne l’esplosività sociale.
Non è vero che nei primi sei anni di Macron non si sia fatto nulla. Non poche risorse investite, riqualificazioni urbanistiche, volonterosi e più motivati insegnanti, programmi sociali, nuove infrastrutture e nuove linee di trasporto per cominciare a sgretolare l’idea e il vissuto di quelli che sono stati definiti anche “ghetti”: isolati, fisicamente distaccati, lontani dalla realtà del resto della nazione. Non è bastato. Non poteva bastare. Addirittura con effetti controproducenti nonostante le buone intenzioni. I trasporti, per esempio: l’isolamento è stato spezzato grazie ad altre linee ferroviarie e del metrò, ma nei week-end le masse di adolescenti delle banlieues si riversano nelle città scintillanti, eleganti, palcoscenico di un benessere vistoso ma per loro, i giovani della periferia, comunque quasi mai raggiungibile. Anche se in diverse attività professionali, dagli uffici allo sport milionario, c’è chi ce l’ha fatta.
È soprattutto questa la novità. Le banlieues non sono soltanto un “luogo estraneo”. I giovani che vi abitano, soprattutto quelli che ancora non sono maggiorenni, si avvitano anch’essi e sempre più in questa loro “estraneità”. Nella convinzione, disperata, che si tratti di un vanto e di uno scudo. Cercano insomma una loro identità. Fra quelli (molti) finiti in manette e in carcere anche per reati minori; fra coloro che aderiscono all’Islam radicale (all’origine di molti soprusi nei confronti delle ragazze); fra chi pensa che la scuola sarà in ogni caso una perdita di tempo; fra chi (la maggioranza) nemmeno ci pensa a scegliere un partito e a votare. Uno sfondo, una esplorata diversità culturale e religiosa, che li allontana sempre di più, che rafforza quadrilateri mentali più solidi e più ardui da abbattere. “Progressivamente, la periferia francese si è ritratta, racchiusa in una sorta di apartheid territoriale e fisico, spesso dominata da bande di quartiere”, osserva il giornalista Massimo Nava.
Anche perché nella Francia che sta loro di fronte (anzi, di schiena) cresce un livore razzista alimentato ad arte da un’estrema destra ancora più radicale, non solo la Le Pen, ma anche un neo politico come Eric Zemmour o un intellettuale come Michel Houellebecq che li definiscono genericamente e sbrigativamente “criminali”, “inconciliabili con la società democratica e bianca”, “avanguardia dell’immigrazione votata alla sostituzione etnica”. Non proprio il miglior viatico per porre rimedio – opera comunque titanica – alle disuguaglianze e alle periodiche esplosioni di quella che il protagonista del film inizialmente citato, “Banlieue 13”, definisce la sua seconda casa: l’odio.
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