Il coro del Cremlino
Cosa sostiene e come passa la propaganda sulla guerra che piace a Mosca
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Cosa sostiene e come passa la propaganda sulla guerra che piace a Mosca
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Cosa sostiene e come passa la propaganda sulla guerra che piace a Mosca
Di Stefano Cappellini, La Repubblica
Qualche giorno fa, nel pieno della rivolta di Evgenij Prigozhin, quando ancora le truppe mercenarie della brigata Wagner parevano intenzionate a puntare su Mosca, un drappello di cronisti ha intercettato il leader del Movimento 5 Stelle a margine di una manifestazione di piazza e gli ha chiesto un parere sui fatti russi. Conte ha risposto così: «C’è una escalation che stiamo seguendo con molta attenzione. Il quadro complessivo rimane comunque quello, così come la nostra posizione critica nei confronti di una strategia che è soltanto militare senza una via di uscita politica». Quella di Conte può sembrare a prima vista una risposta vuota, tre frasi messe insieme per non saper bene cosa dire nel merito, e non è un’impressione sbagliata. A ben guardare, però, è peggio. Lo rivela quella parola: “escalation”. Da mesi usata dal M5S e da un variegato fronte che comprende putiniani dichiarati e dissimulati, tribuni televisivi con e senza programma, neokissingeriani gialloverdi o con falce e martello, per chiedere la fine degli aiuti militari all’Ucraina e la sostanziale resa alle ragioni dell’invasione russa. Con la rivolta di Prigozhin si è compiuta l’ultima piroetta logica della compagnia di giro: suggerire che persino la rivolta della Wagner, tutta interna alle logiche terroriste dello Stato russo e alla sua scelta unilaterale di guerra, sia un effetto delle politiche dell’Occidente, degli Usa e della Nato.
Il dilagare della propaganda filorussa, più o meno consapevole, funziona come una slot truccata: a ogni giro di leva dà sempre come risultato la necessità di assecondare la versione e i desideri di Mosca. Prima la Russia è troppo forte e non può essere contrastata (la tesi su cui l’ineffabile sociologo Alessandro Orsini ha conquistato la ribalta televisiva), poi la Russia è troppo fragile e non si può rischiare che imploda. Contrariare Putin non va bene perché altrimenti usa l’atomica (era la scandalosa tesi centrale di un manifesto rossobruno promosso qualche mese fa, tra gli altri, da Massimo Cacciari e Franco Cardini), ma sostituirlo nemmeno, perché a usare l’atomica sarebbero i golpisti. Il cortocircuito logico e politico di questo andirivieni ha trovato la sua sintesi finale nel tweet che l’ex presidente Rai Marcello Foa, sovranista area Lega, ha dedicato al quasi golpe: “Se dovesse vincere Prigozhin avremmo a che fare con un dittatore capace di tutto”. Il che è senz’altro vero, a patto di spiegare in cosa Putin sarebbe invece un capo di Stato, e non un dittatore, incapace di tutto e con un senso del limite, visto che fino alla settimana scorsa il possibile ricorso alle armi nucleari da parte del Cremlino era appunto l’argomento principe per chiedere di disarmare Kiev e chiuderla qui, mutilando l’Ucraina di quel che è necessario per tornare tutti serenamente, tranne gli ucraini, alle faccende di prima.
Un gioco delle tre carte che va in scena dal giorno uno della guerra. La Russia invade? Fake americana. La Russia ha invaso? È stata costretta dalla Nato. Ma questa non è una storia di pronostici sbagliati, sarebbe il meno. È invece la storia di un progressivo sfondamento della propaganda russa nel dibattito pubblico italiano, con la beffa di vedersi presentare le tesi che a Mosca sono oscene veline di regime come una ventata di coraggioso anticonformismo che il sistema vuole silenziare (silenziare mandandole in onda a ogni ora del giorno). Oltre alla bestialità di Prigozhin frutto dell’escalation, la mistificazione ha preso anche la forma dello scherno, accreditando l’idea che il fronte che difende le ragioni dell’Ucraina e di una pace giusta abbia tifato per Prigozhin. “Prigozhin delude i suoi fan italiani”, ha titolato il Fatto, organo ufficiale della presunta controinformazione, sul quale il generale Fabio Mini ha rilanciato la tesi dell’ex presidente russo Dmitrij Medevedev, secondo il quale dietro l’imbizzarrirsi della Wagner ci sarebbero “i servizi segreti occidentali”. Chi siano i fan italiani di Prigozhin, almeno un nome, una testata, un cinguettìo, non è dato sapere. Ma la loro invenzione è stato un altro modo per spingere la narrazione cara a Mosca: chi sta con l’Ucraina è comunque complice dei nazi, un giorno sostiene la brigata Azov e quello dopo la Wagner. In Italia la delirante teoria della denazificazione dell’Ucraina ha sfondato e conquistato pezzi interi di opinione pubblica, anche chi non ne aveva bisogno come quei reduci che nel putinismo vedono la continuazione della battaglia sovietica e forse della loro giovinezza.
Non è difficile capire il meccanismo che ha spinto la compagnia a ironizzare sui “fan italiani di Prigozhin”. È il sollievo per l’esito della vicenda, la necessità di avere Putin ancora in sella per continuare a far girare le tesi sulla “guerra di Biden” (Michele Santoro), le analisi sulla “guerra degli Usa per dominare il mondo” (Moni Ovadia) o gli appelli del genere “nessuno dica che Putin non vuole la pace” (Conte), e al proposito vedremo con quali risultati tornerà da Mosca il cardinale Zuppi che ieri ha incontrato il patriarca della Chiesa ortodossa Kirill. Sarebbe stata una beffa, per molti, dopo aver sostenuto che opporsi a Putin è sbagliato quanto inutile, constatare che a farlo fuori era stata una brigata di nazisti da lui pagati e sparsi nel mondo a uccidere. Con Putin ancora al comando, anzi “enormemente rafforzato” (Orsini), si può continuare a truccare la slot: escalation, escalation, escalation.
Nell’immagine: il celeberrimo imbroglio del gioco delle tre carte
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