Di Fabiana MagrÌ La Stampa
«Adesso è il momento di sferrare un colpo strategico all’Iran. Non so se si presenterà un’altra opportunità come questa e il vantaggio rischia di svanire nell’attesa». Lo storico israeliano Benny Morris ha seguito la traiettoria dell’attacco di Teheran dal soggiorno di casa sua a Srigim, appena a Sud della strada tra Gerusalemme e Tel Aviv. «Dalla finestra potevo vedere i missili passare. Ero sorpreso che non venissero intercettati prima di arrivare a volare sulla mia testa. Ma non ero davvero preoccupato. Israele si è comportato bene. Le sue difese hanno funzionato».
Pensa che Israele debba rispondere?
«Sì, dovrebbe rispondere con forza. Non come ad aprile. Ma Netanyahu è troppo esitante per essere un vero leader. È la sua natura. Non ha la forza di carattere necessaria. Evita le decisioni importanti. E quando si tratta di sfide, di solito fa marcia indietro».
Come si dovrebbe concretizzare questa risposta?
«Israele deve distruggere le strutture in Iran, quelle importanti, le strutture petrolifere, le installazioni nucleari, tutto ciò che può raggiungere e distruggere. Solo così gli iraniani sarebbero scoraggiati».
Su quali partner regionali o internazionali dovrebbe puntare Israele?
«C’è solo una risposta. Gli Stati Uniti. Ora che Israele ha scatenato l’offensiva con una serie di operazioni, dopo gli attacchi ai cercapersone e ai walkie-talkie, dopo l’assassinio mirato dei comandanti di Hezbollah e dopo aver eliminato anche Nasrallah, spero che gli israeliani e gli americani uniranno le forze per porre fine, una volta per tutte, al progetto nucleare iraniano e alle sue ambizioni. Se Teheran si doterà di armi nucleari, l’intero Medio Oriente sprofonderà. Ma gli Stati Uniti e il presidente Biden non sembrano orientati a cogliere l’attimo. E non sono sicuro che Israele sia in grado di farlo da solo. Questo è il problema».
Ritiene che Israele debba prolungare la presenza militare in Libano o che un’operazione di pulizia lungo il confine potrebbe essere sufficiente?
«Israele ha avviato un processo in Libano. Hanno inviato due divisioni nel Sud del Paese dove stanno ripulendo le infrastrutture militari di Hezbollah. Ma non sono sicuro che sarà efficace o sufficiente. Anche se ci libereremo dalla minaccia di un’invasione terrestre e fermeremo i missili anticarro che hanno una gittata di 10 chilometri e colpiscono i villaggi e le postazioni israeliane di confine, non neutralizzeremo i razzi. Quelli saranno semplicemente lanciati da più a Nord, da 30, 40 o 50 chilometri di distanza. E quanto a Nord si dovrebbe spingere l’offensiva di terra israeliana? Non credo che dovremmo arrivare fino a Beirut. Ci abbiamo provato nel 1982 e non ha funzionato».
Sta dicendo che nemmeno la risoluzione 1701 è una soluzione?
«Non è sufficiente e non è mai stata implementata correttamente. Ma non risolve nemmeno il problema dei razzi o del disarmo di Hezbollah. Il governo libanese è troppo debole, Hezbollah ne fa parte e nessun esercito occidentale si sogna di combatterlo. Come si possa immaginare una nuova risoluzione e come il governo libanese e le potenze occidentali possano farla rispettare, non lo so».
Come storico, esaminando gli eventi che hanno preceduto e seguito il 7 ottobre, qual è la sua valutazione iniziale del suo impatto un anno dopo?
«Innanzitutto, ha dimostrato che Israele era debole. Il sistema di intelligence israeliano e l’esercito non hanno funzionato e gli altri attori regionali hanno capito la sua debolezza. Ma la verità è che questo “anello di fuoco” attorno a noi è una sfida molto difficile. Israele è un Paese di 10 milioni di persone, 8 milioni delle quali sono ebrei. È circondato da 200 milioni di arabi e molte centinaia di milioni di musulmani che non vogliono che Israele esista. E se gli arabi mantengono questa posizione e continuano ad attaccare Israele, non so come possiamo effettivamente sopravvivere a lungo».
È preoccupato della rinascita del sentimento antisemita e antisionista?
«L’antisionismo si è espanso in Occidente, agganciato all’antisemitismo latente anche in Oriente. L’antisemitismo arabo e musulmano ha alimentato quello occidentale attraverso l’immigrazione musulmana in Paesi come l’Italia, la Francia, la Germania e l’Inghilterra. È diventato potente per i tanti musulmani che influenzano le elezioni, i programmi elettorali dei partiti. E questo modificherà l’atteggiamento dei governi verso Israele in futuro. È un problema per Israele ma anche per le popolazioni cristiane dei Paesi occidentali che vorrebbero mantenere un carattere cristiano liberale nelle loro società».
In che senso?
«I musulmani non sono liberali e non sono democratici e spingono le popolazioni cristiane all’estremismo. Ecco perché il partito di destra radicale ha vinto in Austria alle recenti elezioni e perché sta riuscendo a vincere le elezioni locali in Germania. Perché la maggior parte della popolazione cristiana ha paura di questi immigrati e di ciò che presagiscono per il carattere dei loro paesi. E questo è un vero problema».
Qual è la sua valutazione della società civile palestinese a Gaza e in Cisgiordania oggi?
«La maggioranza palestinese sostiene Hamas. Tutti i sondaggi d’opinione dicono che sia nella Striscia di Gaza sia in Cisgiordania la popolazione ha accolto con favore l’attacco del 7 ottobre di Hamas. Sono motivati dall’odio per gli israeliani che dipende in parte dall’occupazione e in parte risale al 1948 e all’esilio di molti palestinesi che sono diventati rifugiati. Hamas è la resistenza a Israele. Il problema è che Hamas non è solo resistenza. Vuole anche distruggere Israele. Non resta nessuno con cui fare la pace se Hamas controlla il pensiero della maggioranza dei palestinesi».
E la società israeliana?
«Il pubblico israeliano si è spostato costantemente a destra. Probabilmente oggi circa la metà sostiene Netanyahu, e la maggioranza sostiene l’ala destra con gli alleati più estremisti. Gli attacchi di Hamas ed Hezbollah dimostrano che gli arabi non vogliono la pace. Le ragioni sono anche demografiche. Le famiglie di destra e religiose fanno più figli di quelle laiche liberali e questo influisce alle urne».
Quindi qual è il futuro che prevede in Israele?
«Non roseo. Un paese che non vuole fare la pace con i palestinesi e vuole annettere permanentemente territori con milioni di palestinesi che non vogliono essere governati da Israele non è un paese in cui sarà piacevole vivere. Una parte del mondo arabo si sta muovendo nella direzione dell’accettazione e della riconciliazione con Israele. Gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco, hanno tutti fatto accordi di normalizzazione con Israele ma non rappresentano necessariamente le masse del mondo arabo, la strada. Rappresentano i regimi. Ma ho la sensazione che le masse in Egitto e Siria, forse in Giordania, odino ancora Israele e vogliano sbarazzarsene».
Che ruolo hanno le Nazioni Unite?
«Sono un’organizzazione senza valore. Sono davvero contento che il ministro degli esteri israeliano abbia dichiarato il segretario generale persona non gradita. Quell’uomo ha rilasciato una dichiarazione disgustosa sull’attacco iraniano e non l’ha condannato. Sono contento che Israele non permetterà a questo idiota di entrare nel Paese».
Nell’immagine: lo storico israeliano Benny Morris