Calciatori, vil razza dannata
Storia e presente del calcio ricordano le tragedie di Shakespeare
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Storia e presente del calcio ricordano le tragedie di Shakespeare
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Storia e presente del calcio ricordano le tragedie di Shakespeare
Il campione moderno non accetta, nel modo più assoluto, che qualcuno lo possa punire, non accetta che un arbitro lo possa sanzionare. La sua percezione della realtà, delle regole, è offuscata dai milioni che incassa, dall’importanza che viene data a un suo minimo malanno che si merita titoli in prima pagina: “5 giorni di riposo per un’infiammazione all’inguine”. Come faremo a superare la domenica
Prendiamo il brasiliano Neymar: ha rinnovato il contratto con il Paris S. Germain per 36 milioni annui. E tu arbitro mi sventoli sotto il naso un ridicolo cartellino giallo? Osi ammonirmi se protesto?
Se il calciatore è disonesto, il telecronista è pusillanime, non fa il suo mestiere. Ha un’arma formidabile di cui non fa uso: “uregiatt” che più non si può, il telecronista dapprima dice che il campione non è d’accordo con la valutazione dell’arbitro, anche se ha chiaramente torto. Sul rallentatore, di fronte all’evidenza del fallo, potrebbe ironizzare in mille modi sui fescennini scimmieschi di chi si traveste da agnellino: invece l’intervento chiaramente falloso viene ridotto a “contatto”.
Ma anche un kriss malese che trapassa da parte e parte un corpo umano fa contatto. Appunto: ci sono delle regole che hanno stabilito quale tipo di contatto fa parte del gioco, quando il calcio è separato dal rugby, l’8 dicembre 1863, alla “Freemason’s Tavern” di Londra. Era stato cancellato lo “hacking” che la scuola di Sheffield permetteva: l’intervento a gamba tesa, anche se, giova precisarlo “below the knie”, solo sotto il ginocchio.
La decima delle 23 regole diceva, in un inglese che oggi è capito anche dai liceali: “no player shall use his hands to push or pull his adversary”. Nessuno può usare le mani per spingere o tirare, strattonare, l’avversario: i piedi al calcio, piedi e zampe al rugby. Proprio così? Oggi non più: l’area di rigore è una giungla, un far-west. Nessuno guarda la palla, il difensore cerca in tutti i modi di mettere le mani addosso all’avversario: se l’arbitro interviene, alza le braccia: non ho fatto nulla, mi arrendo. Subito dopo è catch, detto per intero: catch-as-catch- can: “ciapa ti ca ciapi anca mi”: Materazzi e Chiellini , ma non solo loro, degni eredi di Minosse: “stavvi Minos orribilmente e ringhia: giudica e manda secondo c’avvinghia”.
Stiamo dunque per ritornare alle origini, quando la sfera era una “pig’s bladder”, una vescica di maiale riempita in vari modi, e il gioco consisteva nel trasportarla da un villaggio all’altro: il 13 febbraio 1314 re Edoardo II lo proibisce come un “Godless play”, un gioco senza Dio. Il suo collega scozzese Giacomo I, nel 1414 lo imita per editto: “that no man play at the fute-ball”.
Per il massimo pedagogo inglese del tempo, Peter Stubbes, il calcio è “envy, malice, rancour, choler, hatred, displeasure”: invidia, malizia, rancore, collera odio e disprezzo. Aggiunge che “pochi sfuggono alle fratture del collo, della schiena, delle gambe. Il naso perde sangue e gli occhi talvolta escono dalle orbite (their eyes start out). Per finire, il gioco può anche portare a“ homicide and great effusion of blood”.
E allora perché meravigliarsi del famoso anatema rivolto da Re Lear all’infedele cortigiano Oswald per la penna di Shakespeare? Passi per “slave” (schiavo), “whoreson dog” (cane fijo de na mignotta), “rascal”, nell’inglese del tempo qualcosa come carogna, farabutto: ma scegliere come insulto finale, sommo, un “you base football-player”, spregevole giocatore di calcio – fa pensare…
E noi ci lamentiamo? Allegri: bazzecole nei confronti dell’aria che tirava in quei secoli bui: sono passati solo 400 anni. Diamo tempo al tempo: il DNA mica è immutabile… O sì?
Si rinnova un dibattito acceso che trascura un aspetto importante: c’è anche una ingiustizia territoriale (soprattutto se si parla di potere d’acquisto)
Un interrogativo, un episodio raccontato da un premio Pulitzer, una questione che non dovremmo smettere di porre e di porci, cercando anzitutto di saper guardare e ascoltare