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Si può, sostiene l'esperto Giacomo Luciani, che invita a non essere apocalittici: ma preferisce un ripensamento di produzione e di consumi a un embargo immediato


Redazione
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Chiudere col gas russo
• 9 Aprile 2022 – Redazione
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Di Lorenzo Erroi

“Il gas non può essere sostituito nel breve termine. Infliggeremmo più danni a noi stessi che ai russi”. Lo ha dichiarato qualche giorno fa Christian Lindner, il ministro dell’Economia tedesco, rispondendo alla proposta di smettere di importarlo dalla Russia. L’intera Europa dipende fortemente da gas e petrolio russi: secondo alcuni rinunciarvi infliggerebbe un duro colpo a Mosca, ma anche alle nostre economie già reduci dalla crisi pandemica.

Giacomo Luciani, professore di politica ed economia dell’energia a Sciences Po (Parigi) e al Graduate Institute (Ginevra), la pensa diversamente.

Si può davvero “chiudere il gas” russo?

Certo che si può. Si tratta di capire se si è intenzionati a subirne le conseguenze, che però sarebbero ben marginali rispetto alle sofferenze di questa guerra. Occorre insomma decidere se riteniamo che contrastare Mosca, punirne l’invasione dell’Ucraina e rendersene più indipendenti sia o meno una priorità, tenendo conto del fatto che ci troviamo in una situazione eccezionale, che non si può osservare solo con le lenti della contabilità economica: di fronte a una guerra bisogna essere pronti a fare dei sacrifici. Ma ripeto: non sono questioni di vita o di morte, bensì conseguenze materiali verosimilmente piuttosto limitate, perché nel frattempo si potrebbe avviare una riconversione che creerebbe anche nuove opportunità.

Anche il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi si è chiesto: “Preferiamo la pace o il termosifone acceso, o meglio ormai l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” Ma in concreto come ci si potrebbe muovere?

Anzitutto cercando di sviluppare altre fonti di approvvigionamento di gas, e ce ne sono: con investimenti accelerati è possibile tanto aumentare la produzione interna all’Europa quanto iniziare a sfruttare giacimenti promettenti altrove, ad esempio in Mozambico e in Senegal, dove sarebbe possibile attivare nuovi grandi impianti nel giro di 12-18 mesi. Nel frattempo occorrerà appoggiarsi ad altre fonti e tenere in vita le centrali nucleari in via di dismissione: forzarne l’abbandono proprio ora sarebbe un’assurdità. Infine è importante almeno nel breve periodo ridurre i consumi, dal riscaldamento domestico a quelli di produzioni non prioritarie: non credo che sia necessario a tutti i costi continuare a consumare energia per ‘estrarre’ criptovalute o riscaldare le serre per accelerare la crescita di certe primizie. In generale, vedo meglio questo riorientamento – rapido, seppur non immediato – rispetto a sanzioni ed embarghi improvvisi o rotture dei contratti in essere, col rischio di arbitrati e penali pesantissime.

Molti osservatori ritengono che un grave errore europeo sia stato quello di diventare sempre più dipendenti dall’energia russa e di svegliarsi solo ora, invece di capire prima che occorreva cambiare strategia per arginare il Cremlino e preservare i propri margini di manovra sulla scena internazionale. È d’accordo?

Non mi piace molto la caccia all’errore, e se errori ci sono stati, sono figli di un’illusione che è stata per anni molto diffusa. Si pensava che gli scambi avrebbero permesso di creare una dipendenza reciproca, capace di garantire la pace secondo il vecchio motto dell’economista Frédéric Bastiat: “Dove passano le merci, non passano gli eserciti”. Forti di questa convinzione – smentita anche in altri Paesi nei quali il denaro per le materie prime è stato sfruttato da dittatori e signori della guerra – si è ignorato il peso politico della dipendenza energetica, mentre scelte come la liberalizzazione del mercato dell’energia creavano forti incentivi a ridurre le scorte, che non sono sempre redditizie. Ora occorre prendere atto del fatto che quella previsione era sbagliata, come d’altronde si sarebbe dovuto prestare più attenzione alle molte provocazioni di Vladimir Putin, già eclatanti ben prima di questa guerra: si pensi ai conflitti in Cecenia e in Georgia, al ruolo russo in Siria e alle uccisioni degli oppositori politici.

Ma il ‘blocco’ del gas fermerebbe davvero la guerra?

Non sono convinto che il colpo all’economia russa, certamente grande nel lungo periodo, possa fermare subito l’esercito russo. Quello che si verificherebbe – ad esempio in caso di sanzioni e di un embargo – sarebbero una mancanza di valuta estera e un default russo sul debito internazionale, che però limiterebbero poco un esercito principalmente dipendente da filiere interne. La Russia potrebbe comunque assorbire lo choc almeno nel breve periodo. Questo ci fa anche capire che più che grandi gesti immediati risulta decisiva la conquista strutturale di una maggiore indipendenza energetica nel medio e lungo periodo. Ora l’Europa importa dalla Russia il 40% del suo gas e una quota importante di petrolio (quest’ultimo, data la sua natura, più facile da sostituire in breve, anche se poi la Russia potrebbe rivenderlo a Paesi come Cina e India): basterebbe già ridurre quella quota al 10% per cambiare completamente gli equilibri, arrivando in tempi relativamente brevi a un forte ridimensionamento dell’economia russa, e dunque dello strapotere del Cremlino.

Una teoria del complotto sostiene che gli Usa abbiano fomentato questa guerra per venderci il loro gas – trasportabile in forma liquida – e renderci così più dipendenti da Washington. Al netto del cospirazionismo, quanto interessa agli Usa il nostro mercato dell’energia?

Non credo che gli Stati Uniti di Joe Biden, che hanno anche riavviato un processo di decarbonizzazione e riportato il Paese negli Accordi di Parigi, siano particolarmente interessati a conquistare il mercato dell’energia europeo. Semmai sono gli europei che guardano con favore a maggiori quote di gas americano, per un motivo molto semplice: il gas negli Usa costa 5 dollari al milione di Btu (British thermal unit, l’unità di misura internazionale del gas, ndr), contro gli oltre 30 che si devono pagare sui mercati europei. Non solo la guerra, ma anche la ripresa post-Covid ha fatto schizzare quel prezzo che a maggio del 2020 era fermo a circa 2 dollari.

Gli Usa hanno risolto (o quasi) i loro problemi di approvvigionamento tramite lo shale gas, il gas di scisto estratto con la tecnica del fracking, estremamente invasiva. È una possibilità anche per l’Europa?

Non credo, anche perché questo tipo di formazione geologica in Europa non c’è, al netto di qualche giacimento in Gran Bretagna. Inoltre si tratta di estrazioni il cui impatto non sarebbe sostenibile in zone densamente popolate come quelle del continente europeo. Altri problemi limitano anche l’estrazione di gas ‘tradizionale’ nell’Adriatico, dove si teme di accelerare la subsidenza che ad esempio genera lo sprofondamento di Venezia. Si può comunque potenziare la produzione interna, ma non col fracking.

Meglio puntare sulle rinnovabili?

Purtroppo alcune energie rinnovabili – in particolare l’eolico e il solare – hanno deluso: non sono immagazzinabili e funzionano solo nelle giuste condizioni meteorologiche. Per cui, oltre a svilupparne le potenzialità, resta fondamentale nel breve periodo combattere la dipendenza energetica anche puntando su altre fonti, carbone incluso, e ritornando sulla scelta sciagurata di dismettere nell’immediato le centrali nucleari.

In che situazione si trova la Svizzera?

La Svizzera si trova in una posizione favorevole grazie a un mix che dipende principalmente da idroelettrico e, appunto, nucleare, sebbene anche qui vi siano piani per la sua dismissione che andranno rivisti. Però, attenzione: non ha molto senso parlare di un singolo Paese in un mercato fortemente integrato a livello continentale come quello dell’energia, e in una situazione logistica tale che lo stesso gasdotto che attraversa la Confederazione corre dall’Olanda all’Italia. È abbastanza chiaro che le autorità politiche ed economiche europee dovranno pensare a soluzioni coordinate, senza illudersi di poter procedere ciascuna per conto suo.

Un’altra polemica che ha tenuto banco per settimane è stata quella dei pagamenti in rubli per le materie prime. Putin ha decretato un sistema in cui gli acquirenti occidentali dovrebbero versare i pagamenti nella loro valuta su un conto presso Gazprombank, che a sua volta la convertirà su un secondo conto in rubli. Non si capisce però bene cosa cambi per il valore della moneta nazionale: già ora l’80% dei pagamenti viene immediatamente convertito in rubli. È un “ricatto”, come dicono molti leader europei, un astuto tentativo di consolidare il rublo e magari farne una divisa corrente sui mercati dell’energia (oggi dominati da dollari ed euro), oppure una semplice mossa propagandistica, tanto per salvare la faccia?

È in effetti una questione di facciata, l’azzardata trovata di un Putin che si trova molto isolato e non ascolta nessuno, neppure i suoi collaboratori. A quanto pare si è anche convinto che le imprese di Stato gli nascondano fondi in valuta estera, ma non si capisce a che pro, dato il congelamento dei conti internazionali. Davvero non si capisce l’utilità di questa operazione che cambia ben poco sul piano economico-finanziario. In compenso costituisce una potenziale rottura di contratto, che espone Gazprom ad arbitrati internazionali i quali a loro volta potrebbero avere pesanti conseguenze economiche per l’impresa e il sistema russo.

Per gentile concessione de la Regione






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