Fine marzo 2019. In Ucraina si svolge il primo turno delle elezioni presidenziali, che seguo come osservatore elettorale per l’OSCE, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Il giorno delle elezioni dobbiamo osservare le operazioni di apertura di un seggio elettorale scelto a caso. Con la mia partner, una diplomatica canadese di origine inuit, scegliamo di recarci in un villaggio di un migliaio di abitanti a nord di Odessa. Il seggio elettorale si trova in una scuola. Alle 6 e 30 troviamo l’ufficio elettorale in piena attività, sotto gli occhi attenti degli osservatori dei differenti partiti. Si svolge tutto normalmente. Ne siamo sicuri anche perché gli osservatori hanno tutto l’interesse a controllarsi a vicenda.
Dopo aver verificato l’inizio regolare delle operazioni di voto, una giovane ragazza con in mano un mazzo di fiori ci chiede di fare una foto con lei. Ha votato per la prima volta, e la presidente del seggio le ha regalato i fiori. Li ha comperati a sue spese. “Ai tempi dell’Unione sovietica si faceva sempre un piccolo regalo a chi votava per la prima volta. Adesso non è più previsto, ma io ho voluto mantenere la tradizione,” ci spiega la presidente del seggio, che è anche preside della scuola.
I contendenti principali sono il presidente uscente Petro Poroshenko, Yulia Timoschenko, ex primo ministro e protagonista del movimento contro i brogli elettorali del 2004, e un attore, Volodimir Zelensky, molto popolare per la serie televisiva in cui interpreta la parte di un brav’uomo eletto presidente suo malgrado. Nei diversi briefing pre-elettorali tenutisi a Kiev, gli analisti dell’OSCE insistono sul pericolo che il presidente uscente, sfruttando la sua posizione di potere, possa cercare di influenzare l’esito delle elezioni a suo favore.
Poroshenko, facendo largo uso di mezzi pubblici, ha condotto una campagna elettorale piuttosto marziale, improntata ai timori di un tentativo di rivincita russo dopo la rivolta che aveva portato alla destituzione del presidente filorusso Viktor Yanukovich. Julia Timoshenko promette una nuova costituzione che ponga un limite allo strapotere degli oligarchi. Volodimir Zelensky vuole lottare contro la corruzione e punta sul desiderio di normalità degli ucraini, stanchi del soffocante retaggio della tradizione sovietica. Si spera anche che Zelensky, di lingua madre russa, possa più facilmente trovare un modus vivendi con Mosca, tanto che gli altri contendenti lo accusano di esser pronto a capitolare di fronte alla Russia.
All’alba del giorno successivo, dopo aver percorso 300 chilometri e visitato una quindicina di seggi elettorali, rientriamo a Odessa convinti che le preoccupazioni della vigilia erano infondate. In tutti i seggi abbiamo percepito l’orgoglio di seguire correttamente le procedure, la fierezza di poter scegliere liberamente fra candidati diversi, a differenza di quanto si era visto un anno prima in Russia, dove Alexei Navalny, l’unico candidato che avrebbe potuto contrastare la vittoria di Vladimir Putin, era stato escluso dalla consultazione con ragioni considerate pretestuose anche da Amnesty International.
I risultati del primo turno riflettono il quadro di una vera contesa. Il presidente uscente Poroshenko si deve accontentare del 15.95 %, l’altra favorita Yulia Timoshenko raccoglie il 13,4% delle preferenze, mentre con il 30,24% Zelensky raccoglie il maggior numero di voti. Il candidato filorusso Yuri Boyko ottiene l’11,67%; l’estrema destra ultranazionalista non raccoglie più dell’1,6% dei suffragi.
Di ritorno in Ucraina all’inizio di aprile per seguire il secondo turno, assistiamo alla vittoria di Volodimir Zelensky, che viene eletto presidente con il 73,22% dei voti. Con grande delusione di Vania, la nostra traduttrice, una studiosa di letteratura inglese, per la quale il comico Zelensky non rappresenta una scelta seria. Ma neppure lei, russofona, nipote di un importante funzionario comunista ai tempi dell’Unione sovietica, rimpiange anche solo per un momento l’indipendenza ucraina. Per consolarsi ci fa visitare la bellissima Odessa, la cui architettura tradisce la mano degli architetti e ingegneri italiani che l’hanno costruita. La famosa scalinata, quella della corazzata Potemkin, è anche un po’ ticinese: l’ha progettata un architetto Boffo, che ha imparato il mestiere ad Arasio.
Quando confronto questi ricordi con certi interventi che mi capita di leggere in questi giorni, mi sembra di leggere racconti di fantapolitica. C’è chi parla, prendendo sul serio le elaborazioni della propaganda del Cremlino, di un Paese in mano a una congrega di neonazisti, e inoltre si scopre che per gli ideologi attualmente in auge presso il Cremlino è nazista praticamente ogni persona che si considera ucraina. Tacciamo poi su ‘Zelensky nazista’ (di religione ebraica), quando tre anni fa, in campagna elettorale, veniva accusato di essere troppo compiacente con la Russia.
Io non sono uno storico come pretendono di esserlo certi commentatori anche nostrani, che disquisiscono sul diritto dell’Ucraina di essere una nazione. So però che anche gli abitanti di alcune valli alpine situate nel cuore della Svizzera, un migliaio di anni fa, decisero di essere una nazione, in barba a ogni logica e incuranti dei rapporti di forza, visto che si mettevano contro nientemeno che al Sacro Romano Impero. E adesso ci ritroviamo ad essere cittadini di una nazione che in quanto a omogeneità culturale è quanto di più improbabile ci possa essere.
Poi ci sono quelli bendisposti, che esprimono comprensione per il desiderio degli ucraini di emanciparsi dalla tutela del potente vicino. Ma che immediatamente spiegano loro che avendo la sfortuna di essere geograficamente collocati vicino a un Paese dotato di armi nucleari, non possono fare quello che vogliono, soprattutto se c’è il rischio di sconvolgere i rapporti di forza fra i potenti del mondo, creando conflitti che potrebbero mettere in pericolo il nostro benessere. Ma chi siamo noi per pretendere che chinino la testa e accettino passivi il loro triste destino?
Negli ucraini che ho conosciuto, io ho visto solo il desiderio di vivere in un Paese normale, chiamato Ucraina, i cui abitanti possano decidere liberamente da chi essere governati. Poi è chiaro che a un risultato accettabile non si arriva in qualche anno. Per rimanere nel nostro piccolo: in Svizzera abbiamo combattuto la nostra ultima guerra civile 500 anni dopo il Patto del Grütli. Si tratta di un percorso lungo e difficoltoso, costellato di fallimenti, di fughe in avanti, e anche di decisioni sbagliate. Ne sono state prese anche a Kiev. Ma una cosa sembra evidente: gli ucraini vogliono essere ucraini, e non russi. Lo hanno dimostrato nelle ultime settimane, e noi non possiamo che prenderne atto.
In questi giorni seguo Vania su Facebook, preoccupato per quel che potrebbe succederle. Non pubblica più niente già da due settimane. Nel suo ultimo post lanciava un appello per raccogliere materiale sanitario per la difesa territoriale. Nessuna idea di come stia la giovane elettrice del villaggio vicino a Odessa. Sembrerebbe che la sua regione sia per ora stata risparmiata dalla guerra.
Speriamo in bene.
Nell’immagine: i risultati delle elezioni presidenziali del 2019. In verde il voto per Zelensky