Contro la meritocrazia
Un principio fondato e condivisibile può trasformarsi nel motore di una realtà che lo contraddice – Intorno a “L’avvento della meritocrazia” di Michael Young
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Un principio fondato e condivisibile può trasformarsi nel motore di una realtà che lo contraddice – Intorno a “L’avvento della meritocrazia” di Michael Young
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Un principio fondato e condivisibile può trasformarsi nel motore di una realtà che lo contraddice – Intorno a “L’avvento della meritocrazia” di Michael Young
Michael Young era un figlio scomodo. Il padre era un musicista e critico musicale australiano; la madre, cresciuta in Irlanda, era una pittrice bohémienne. Erano spiantati, distratti e litigavano spesso. Michael, nato nel 1915, scoprì presto che nessuno dei due aveva molto tempo da dedicargli. Un giorno, vedendo che i genitori sembravano aver dimenticato il suo compleanno, pensò che lo aspettasse una sorpresa. Invece i genitori avevano davvero dimenticato il suo compleanno, il che non era affatto sorprendente. Una volta li sentì per caso parlare della possibilità di darlo in adozione. Come avrebbe raccontato in seguito, non superò mai del tutto la paura dell’abbandono.
Tutto cambiò quando, a quattordici anni, Young fu mandato in un collegio sperimentale a Dartington Hall, nel sud dell’Inghilterra. L’istituto, fondato dai filantropi progressisti Leonard e Dorothy Elmhirst, puntava a cambiare la società trasformando le persone. Per Young fu come essere adottato, perché gli Elmhirst lo trattarono come un figlio, incoraggiandolo e sostenendolo finché vissero. Young si ritrovò di colpo a far parte di un’élite internazionale che cenava con il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt e assisteva a conversazioni tra Leonard ed Henry Ford.
Considerato uno dei più importanti sociologi del novecento, Young ha aperto la strada all’esplorazione scientifica moderna delle relazioni sociali della classe operaia britannica. Ma il suo scopo non era solo studiare le classi sociali: voleva ridurre i danni che potevano causare. L’ideale promosso a Dartington Hall (coltivare le personalità e le abilità, qualunque fossero) era ostacolato dalla struttura di classe britannica. Cosa doveva prendere il posto della vecchia gerarchia sociale, così simile al sistema delle caste? Per molti, oggi, la risposta è la meritocrazia, un termine coniato sessant’anni fa proprio da Young per indicare un mondo in cui il potere e il privilegio sono assegnati in base al merito individuale e non alle origini sociali.
Ispirati dall’ideale meritocratico, molti condividono una certa visione di come dovrebbero essere organizzate le gerarchie del denaro e del prestigio sociale. Pensiamo che un posto di lavoro debba andare non a chi ha i contatti giusti o la famiglia più influente, ma a chi è più qualificato per quel lavoro, indipendentemente dalla sua estrazione sociale.
A volte ammettiamo delle eccezioni, per esempio nel caso della discriminazione positiva, che aiuta a smantellare gli effetti di una discriminazione precedente. Ma si tratta di eccezioni provvisorie: quando i pregiudizi legati a sesso, etnia, classe e casta spariranno, le eccezioni non saranno più legittimate. Abbiamo respinto la vecchia società di classe e, spostandoci verso l’ideale meritocratico, abbiamo creduto di eliminare ogni traccia lasciata dalle gerarchie del passato. Le cose non vanno esattamente così, e Young l’aveva capito.
Young odiava l’espressione “stato sociale” (diceva che sapeva di acido fenico), ma non aveva ancora trent’anni quando contribuì a crearne uno. Come direttore dell’ufficio ricerche del Partito laburista britannico, scrisse ampie parti del manifesto che contribuì alla vittoria elettorale del 1945. Il manifesto, intitolato Let us face the future (Affrontiamo il futuro), auspicava “la creazione del commonwealth socialista della Gran Bretagna, libero, democratico, efficiente, progressista, dotato di senso civico, le cui risorse materiali siano messe al servizio della popolazione britannica”.
Il partito mantenne le promesse: portò a quindici anni l’obbligo scolastico, rafforzò l’istruzione per gli adulti, migliorò l’edilizia popolare, rese gratuita l’istruzione pubblica secondaria, creò un servizio sanitario nazionale e garantì a tutti la previdenza sociale. Fu l’inizio di un netto miglioramento nella vita della classe operaia britannica. I sindacati e le nuove leggi permisero di ridurre l’orario di lavoro degli operai, facendo crescere il loro tempo libero. Grazie all’aumento dei redditi, i lavoratori comprarono televisori e frigoriferi. E le cose cambiarono anche per le fasce più ricche, in parte grazie alle nuove imposte sulle successioni. Nel 1949 il ministro del tesoro laburista Stafford Cripps (che si dà il caso fosse mio nonno) introdusse un’imposta con un’aliquota dell’80 per cento sui patrimoni di almeno un milione di sterline, l’equivalente di 32 milioni di sterline di oggi (più di 35 milioni di euro). Per due generazioni queste riforme sociali garantirono protezione a quelli che facevano parte della classe operaia e permisero ai loro figli di progredire nella scala degli incarichi di lavoro, dei redditi, e quindi, entro certi limiti, anche in quella del prestigio sociale. Young era profondamente consapevole di questi risultati, ma con altrettanta acutezza ne percepiva i limiti.
Dopo la seconda guerra mondiale il numero d’iscritti alle università britanniche esplose. Aver frequentato l’università diventò uno dei principali indicatori di classe. L’appartenenza dei bibliotecari alla classe media, nonostante i loro magri stipendi, era dovuta al fatto che l’istruzione superiore era un requisito della professione. Se gli addetti alla catena di montaggio non avevano lo stesso status, anche se guadagnavano di più, era perché facevano un mestiere che non aveva lo stesso requisito. La coscienza della classe operaia, presente nel nome stesso del Partito laburista britannico fin dalla sua fondazione nel 1900, era nata in un’epoca di mobilitazione, di lavoratori che difendevano i loro interessi. La nuova epoca dell’istruzione, invece, era quella della mobilità sociale, dei colletti blu che diventavano bianchi. La mobilità avrebbe indebolito la coscienza di classe?
Queste domande tormentavano Young, che fondò un istituto per gli studi di comunità nel quartiere londinese di Bethnal Green, e da lì sostenne la nascita e lo sviluppo di decine di programmi e organizzazioni al servizio dei bisogni sociali che lui stesso aveva individuato. La Consumers’ association fu una sua idea, come anche la rivista dell’associazione, Which?, che esiste ancora. Nel 1969 Young fondò la Open university, che da allora ha avuto più di due milioni di studenti, diventando la principale istituzione accademica nel Regno Unito per numero d’iscritti.
L’istruzione, secondo Young, era importante non solo perché permetteva la mobilità sociale, ma perché rendeva le persone cittadini più forti, qualunque fosse la loro condizione sociale, più resistenti agli attacchi degli imprenditori o dei funzionari di governo. In seguito avrebbe perfino creato una scuola per imprenditori sociali. Per anni s’impegnò a rafforzare le reti sociali – il “capitale sociale”, come lo chiamano oggi i sociologi – delle comunità, intimidite da chi rivendica una fetta sempre più grande del potere e delle ricchezze della società.
Young sentiva che le gerarchie di classe avrebbero resistito alle riforme che voleva realizzare. Spiegò in che modo nel suo secondo best seller, L’avvento della meritocrazia, un’opera satirica pubblicata nel 1958. Come molti altri fenomeni, la meritocrazia deve il suo nome a un avversario. Il libro di Young si presentava come un testo scritto nel 2033, in cui uno storico analizzava la nuova società britannica sorta nei decenni precedenti. In quel lontano futuro soldi e autorità si guadagnavano, non si ereditavano. La nuova classe dirigente era determinata dalla formula “quoziente d’intelligenza (qi) + sforzo = merito”. La democrazia avrebbe ceduto il passo al governo dei più intelligenti, “non un’aristocrazia della nascita, non una plutocrazia della ricchezza, ma una vera meritocrazia del talento”. Era la prima volta che la parola “meritocrazia” si leggeva stampata su una pagina, e il libro voleva mostrare come sarebbe stata una società costruita su questo principio.
L’idea di Young era decisamente distopica. Se la ricchezza riflette sempre di più l’intrinseca distribuzione del talento naturale, e se i ricchi sempre più spesso si sposano tra loro, la società finisce per dividersi in due grandi classi, in cui ognuno crede di avere quello che si merita. Young immaginava un paese in cui “le persone illustri sanno che il successo è una giusta ricompensa per le loro capacità e i loro sforzi”, e dove chi occupa i gradini più bassi sa di non aver sfruttato tutte le opportunità che gli sono state date. “Sono stati messi più volte alla prova. Se sono stati ripetutamente bollati come ‘somari’, non possono più avere pretese. L’immagine che hanno di se stessi si avvicina a un riflesso fedele e poco attraente”, scriveva Young. Uno dei primi intoppi del sistema è che “quasi tutti i genitori proveranno a favorire in modo sleale i figli”. E in una situazione di disparità dei redditi, è proprio una delle cose che i soldi permettono di fare. Se le condizioni economiche dei genitori contribuiscono a determinare i compensi dei figli, non siamo più in una società basata sulla formula “qi + sforzo = merito”.
Come sappiamo, i timori di Young erano fondati. Tra le famiglie statunitensi, il 20 per cento più ricco ha visto aumentare i suoi redditi lordi di quattromila miliardi di dollari tra il 1979 e il 2013, mille miliardi di dollari in più rispetto a quanto registrato dal resto delle famiglie. Quando gli Stati Uniti e il Regno Unito introdussero misure per favorire l’accesso all’istruzione superiore, si pensò che avrebbero portato più uguaglianza. Ma un paio di generazioni dopo, spiegano gli esperti, l’istruzione superiore è diventata un fattore di stratificazione sociale. Gli economisti hanno scoperto che molte università frequentate dalle élite (tra cui Brown, Dartmouth, Penn, Princeton e Yale) accolgono più studenti dall’1 per cento della società appartenente alla fascia di reddito più alta che dal 60 per cento più in basso. In poche parole, uno dei modi migliori per conquistare un posto tra chi ha più soldi, potere e privilegi è partire da lì. “La meritocrazia statunitense”, sostiene Daniel Markovits, docente di diritto a Yale, è “diventata esattamente quello che era nata per combattere: un meccanismo di trasmissione dinastica di ricchezze e privilegi”.
Michael Young, morto nel 2002 a 86 anni, era consapevole di tutto questo. “L’istruzione ha messo il suo sigillo di approvazione su una minoranza”, scriveva, “e il suo sigillo di disapprovazione sulle tante persone che non riescono a brillare dopo essere finite nelle classi per alunni meno capaci, a sette anni o anche prima”. Quelli che dovevano essere meccanismi di mobilità erano diventati fortezze di privilegi. Young aveva visto affermarsi una schiera di meritocrati interessati solo al profitto, insopportabilmente compiaciuti di sé, molto più di chi sa di aver raggiunto un traguardo perché figlio o figlia di qualcuno. In certi casi questi nuovi arrivati credono perfino di avere la morale dalla loro parte. La corazza del “merito”, osservava Young, aveva solo reso i vincitori insensibili alla vergogna e al biasimo.(…)
Questa visione del mondo alternativa, in cui ognuno di noi parte dalle proprie capacità e persegue traguardi diversi, con il rispetto di sé che ciascun traguardo implica, Young l’aveva imparata a Dartington Hall. Il suo grande impegno a favore dell’uguaglianza sociale può sembrare donchisciottesco, come certi progetti scolastici utopistici, eppure nasce da una riflessione filosofica profonda. Il compito centrale dell’etica è chiedere cosa voglia dire vivere bene. Una risposta plausibile è che vivere bene significa affrontare la sfida posta da tre cose: le nostre capacità, le circostanze in cui nasciamo e i progetti che consideriamo importanti. Dal momento che ognuno di noi nasce in circostanze e con capacità diverse, e poiché scegliamo progetti diversi, affrontiamo tutti sfide diverse. Non esiste una misura di valutazione comparativa che permetta di stabilire se la mia vita è migliore della tua. Young aveva ragione quando criticava l’idea secondo cui le “persone possono essere inserite in una graduatoria fondata sul valore”. Quello che conta, alla fine, non è come ci classifichiamo rispetto agli altri. Non dobbiamo trovare qualcosa che facciamo meglio di chiunque altro. Quello che conta, per chi abbraccia la filosofia di Dartington Hall, è semplicemente che facciamo del nostro meglio.
Young aveva capito che l’ideale della meritocrazia confonde due problemi distinti. Il primo riguarda l’efficienza, il secondo il valore umano. Se vogliamo che le persone svolgano lavori complessi che richiedono talento, istruzione, impegno, formazione e pratica, dobbiamo individuare i candidati con la giusta combinazione di capacità e disponibilità e dargli degli incentivi perché si formino e facciano pratica.
Visto che le opportunità di istruzione e di lavoro saranno limitate, dovremo trovare un modo per distribuirle, dei princìpi di selezione per assegnare le persone ai posti di lavoro. E dovremo trovare anche gli incentivi giusti per garantire che il lavoro necessario sia svolto. Se questi princìpi di selezione saranno pensati bene, potremo dire che chi risponde ai requisiti per entrare in una certa scuola o ottenere un certo lavoro “merita” di occupare quel posto. Si tratta, per usare l’utile gergo dei filosofi, di una questione di “merito istituzionale”. Le persone meritano quei posti proprio come chi compra un biglietto vincente della lotteria merita la vincita: posti e vincita sono ottenuti applicando un preciso insieme di regole.
Il merito istituzionale, però, non ha niente a che vedere con il valore intrinseco delle persone ammesse in un’università o assunte per un lavoro, proprio come chi vince alla lotteria non ha più meriti di chi perde. Anche ai massimi livelli di successo entrano in gioco molte circostanze casuali. Se Einstein fosse nato un secolo prima, forse non avrebbe dato nessun contribuito fondamentale al suo campo di ricerca. Lo stesso può dirsi di Mozart, se fosse nato alla fine dell’ottocento e avesse fatto musica dodecafonica. Nessuno dei due avrebbe potuto sviluppare le sue inclinazioni se fosse cresciuto tra i nukak in Amazzonia.
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