Cosa rischia Biden dopo la scoperta dei documenti “rubati”
Il primo scandalo giudiziario della presidenza di Joe Biden è arrivato dopo le midterm
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Il primo scandalo giudiziario della presidenza di Joe Biden è arrivato dopo le midterm
Di Gianluca Lo Nostro, InsideOver
I legali del Presidente Usa, apparentemente a sua insaputa, hanno consegnato al dipartimento di Giustizia alcuni documenti potenzialmente riservati contenenti rapporti d’intelligence su Ucraina, Iran e Regno Unito, risalenti agli anni in cui Biden era il vice di Obama, in particolare tra il 2013 e il 2017. Secondo la legge denominata Presidential Records Act tale materiale va considerato di proprietà governativa e dunque deve essere restituito da chi ricopre cariche pubbliche, anche se si tratta del Presidente degli Stati Uniti. È la stessa motivazione per cui Donald Trump è sotto inchiesta, ma a quali rischi si espone invece l’attuale inquilino della Casa Bianca?
La differenza principale con il suo predecessore è l’autodenuncia. Dopo la segnalazione proveniente da Washington del think tank Penn Biden Center, il team di avvocati di Biden ha presentato tutto alle autorità giudiziarie. Una collaborazione che da parte del tycoon non c’è mai stata, come dimostra il raid subitaneo della scorsa estate dell’Fbi nella residenza di Mar-a-Lago grazie al quale sono state recuperate 33 scatole con oltre 300 carte al loro interno. “Quando, l’Fbi, farà la stessa cosa nelle case di Joe Biden?” si è domandato l’ex Presidente commentando la notizia che riguardava il suo successore.
Trump ha sempre visto questa inchiesta come un accanimento nei suoi confronti e a prestargli manforte sono i numerosi parlamentari repubblicani che insieme a lui (e l’alleato inaspettato, Elon Musk) hanno agitato a lungo lo spauracchio del caso di Hunter Biden, minacciando un’indagine congressuale. Biden, per contro, ha reagito quasi attonito, certo di una risoluzione tra i suoi legali e la giustizia. Ma con la nuova maggioranza Gop alla Camera pronta a dargli filo da torcere, le ripercussioni politiche – più che giudiziarie – potrebbero essere catastrofiche sul piano della reputazione e della comunicazione, il vero tallone d’Achille del Presidente americano.
L’ultima parola spetta all’Attorney General Merrick Garland, chiamato a decidere se aprire o meno un’indagine federale. L’impatto sull’inchiesta in cui è coinvolto Trump sarà minimo, essendo già stato nominato il procuratore speciale Jack Smith che si occuperà di stabilire, in maniera del tutto indipendente, se procedere o meno con l’incriminazione che verrà decretata dal Gran Giurì. Tuttavia, qualora il dipartimento di Giustizia dovesse ritenere il caso perseguibile sulla base dell’evidenza raccolta, resterebbe il fatto che ciascun Presidente nel pieno delle sue funzioni gode dell’immunità penale durante il suo mandato. È probabilmente la stessa ratio seguita dall’ex direttore dell’Fbi Robert Mueller nell’annosa indagine sul Russiagate, dalla quale Trump fu assolto.
Le pressioni a cui sarà sottoposto il dipartimento di Giustizia guidato da Garland potrebbero ad ogni modo intralciare la sua azione. Il Partito Repubblicano è sul piede di guerra per questo motivo e non è da escludere una procedura di impeachment contro Biden. I conservatori Usa hanno già criticato la doppia morale della stampa nel raccontare i due scandali. Messi a confronto, infatti, si nota immediatamente un tono più accusatorio verso Trump.
Il Gop potrebbe mettere così in stato d’accusa il Presidente democratico andando incontro a una sicura bocciatura al Senato, controllato dai dem che per due volte hanno provato a rimuovere Trump con l’impeachment. Il gesto, simbolico, rappresenterebbe la tolleranza zero di una nuova opposizione e di un nuovo Partito Repubblicano spostatosi su orientamenti sempre più estremisti, malgrado i tentativi di calmare i più oltranzisti dello Speaker Kevin McCarthy, riavvicinatosi alla base trumpiana dopo l’iniziale rabbia per l’assalto a Capitol Hill. Intanto la commissione di vigilanza della Camera dei Rappresentanti sta per lanciare un’indagine. “La commissione è preoccupata che il Presidente abbia compromesso fonti e metodi con la sua cattiva gestione di documenti classificati”, dichiara il presidente della commissione, il repubblicano James Comer, in una lettera indirizzata alla Casa Bianca, fissando come termine perentorio per l’invio delle carte il 24 gennaio.
“Lo sapevano da una settimana prima delle elezioni”, ha sottolineato furioso il deputato Jim Jordan, che da neo presidente della commissione giustizia della Camera ha promesso la costituzione di una sottocommissione parlamentare contro l’uso politico del governo federale. “Forse il popolo americano avrebbe dovuto saperlo. Sicuramente sapevano del raid a Mar-a-Lago 91 giorni prima di queste elezioni, ma sarebbe stato bello se il 2 novembre il Paese avessero saputo che c’erano documenti riservati al Biden Center”. La Casa Bianca è avvertita: ci sarà un notevole aggravamento della polarizzazione politica negli Stati Uniti e a farne le spese potrebbe essere l’amministrazione Biden, avvolta dal suo primo, forse grande scandalo.
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