Cristiani armeni traditi da Mosca e dalla passività dell’Occidente
I ribelli armeni del Nagorno Karabakh costretti a deporre le armi in seguito alla grande offensiva azera: ma le scintille caucasiche del dopo-Urss rimangono una pericolosa incognita
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I ribelli armeni del Nagorno Karabakh costretti a deporre le armi in seguito alla grande offensiva azera: ma le scintille caucasiche del dopo-Urss rimangono una pericolosa incognita
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I ribelli armeni del Nagorno Karabakh costretti a deporre le armi in seguito alla grande offensiva azera: ma le scintille caucasiche del dopo-Urss rimangono una pericolosa incognita
La nuova offensiva azera nel Nagorno-Karabakh, sostenuta e foraggiata da Ankara, è durata solo 24 ore e si è conclusa con una definitiva capitolazione delle «Truppe di Difesa» della piccola enclave a etnia armena: parte cristiana dell’Azerbaigian musulmano. Una capitolazione che è anche una disfatta per il governo di Nikol Pashinyan, premier dello Stato armeno, che aveva fatto di tutto per rimandare l’inevitabile conclusione di un conflitto in cui sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista militare le forze nemiche erano sempre state schiaccianti. Se, come prevedibile, siamo alla definitiva conquista del Nagorno-Karabakh da parte azera, ciò dimostrerebbe ancora una volta l’instabilità della regione caucasica e quanto siano serie le aspirazioni turche alla formazione di un “nuovo Impero Ottomano”.
Allo stesso tempo non va però dimenticato che questo conflitto affonda le sue radici nel “secolo breve” sovietico: negli Anni Venti, la contesa territoriale tra le due repubbliche sovietiche – Azerbaigian e Armenia – fu congelata fino alla perestrojka, quando in sostanza Michail Gorbaciov si schierò per uno status quo favorevole all’Armenia. In questo senso, come nella guerra d’Ucraina, siamo ancora nell’ambito storico del “lungo crollo sovietico”.
Sin dalle prime ore dell’attacco è stato evidente che questa appendice alla guerra del 2020 avrebbe avuto un solo e sicuro vincitore. I bombardamenti massicci effettuati con droni e artiglieria pesante hanno subito colpito ferocemente Stepanakert, la capitale dell’ormai defunta Repubblica autoproclamata (e internazionalmente non riconosciuta) dell’Artsakh (nome armeno della regione) distruggendo sistematicamente le batterie antiaeree e i sistemi per la guerra elettronica della “guerriglia”. Secondo i dati forniti dal governo di Baku ci sarebbero stati una quarantina di morti e qualche centinaio di feriti. Ma, in realtà, la grande tragedia della minoranza armena della regione (circa 100.000 persone) inizia ora. Migliaia di famiglie, terrorizzate dall’arrivo degli azeri, hanno sin da ieri abbandonato le loro case riversandosi sull’aeroporto di Stepanakert o caricando su mezzi di fortuna le proprie povere cose, per un viaggio di sola andata verso l’Armenia.
La sconfitta armena, allo stesso tempo, rappresenta l’inevitabile epilogo di una posizione strategica di Erevan che era stata sin dai suoi esordi senza grandi possibilità di manovra.
Infatti durante la guerra di tre anni fa la Russia si era rifiutata di sostenere l’Armenia con mezzi e uomini (dispiegando solo dopo l’armistizio un contingente peace-keeping di 6.000 soldati sulla linea di contatto), visto che Putin non avrebbe mai potuto inimicarsi la Turchia, l’unico paese Nato che ha da anni un atteggiamento benevolente verso Mosca. Allo stesso tempo, il Cremlino sapeva benissimo in quale tragico vicolo cieco di trovasse l’Armenia. L’eventuale rottura formale dell’alleanza militare di Erevan con Mosca difficilmente porterebbe dei vantaggi all’Armenia. Infatti l’uscita del governo armeno dall’alleanza militare a trazione russa (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva) non potrebbe comunque avere come epilogo l’ingresso di Erevan nella Nato: pesa anche la memoria della pagina nera del genocidio della minoranza armena per mano turca, sempre negato da Ankara ma riconosciuto da un numero crescente di paesi occidentali, fra cui gli Stati Uniti.
Così l’Armenia, dopo un’eventuale rottura ufficiale con Mosca, verrebbe a trovarsi in uno scomodo limbo, e continuerebbe a ricevere dall’Unione Europea (e dalla Francia in particolare) solo attestazioni formali di solidarietà. Anche dal punto di vista economico, la situazione non sarebbe certo migliore, visto che il Paese sopravvive soprattutto grazie ai prezzi sussidiati di gas e petrolio garantiti dalla Russia. Le proteste popolari dell’altra sera a Erevan, davanti all’ambasciata di Mosca, dicono quale sia lo stato d’animo di buona parte degli armeni nei confronti di Putin, che aveva promesso di ‘proteggere la minoranza armena del Nagorno Karabkh, ma che si è sempre militarmente defilato, oggi a maggiore ragione per via della guerra che ha scatenato in Ucraina: sono state manifestazioni che illustrano soprattutto la frustrazione e la confusione politica che regna in Armenia. Un canto del cigno.
Non a caso il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, parlando degli avvenimenti in corso, ha in pratica fatto spallucce, affermando che non si è trattato di un rigurgito della guerra armeno-azera, ma semplicemente “di azioni della Repubblica dell’Azerbaigian sul proprio territorio”.
Ora Putin si è tolto il peso di una questione che lo tormentava e infastidiva da anni, mentre il presidente turco Erdogan e il presidente azero Gaydar Aliev hanno ragioni per festeggiare. Continua invece la tragica epopea e diaspora del popolo armeno, che da troppo tempo non vede un futuro di pace e prosperità davanti a sé. E continua la tormentata storia cominciata con l’implosione dell’Unione Sovietica. Scintille che nel Caucaso potrebbero provocare altri incendi. Pericolosi anche per l’Europa occidentale.
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