Dentro e fuori il rettangolo di gioco
All’Europeo e a casa nostra più che di calcio si parla d’altro
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All’Europeo e a casa nostra più che di calcio si parla d’altro
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All’Europeo e a casa nostra più che di calcio si parla d’altro
Prendiamo i nostri prodi rossocrociati, mosci mosci alla prima con il Galles, inesistenti contro l’Italia e infine miracolati da una prestazione appena sufficiente contro i turchi più dimessi (calcisticamente) della storia, e cosa ne ricaviamo? Insomma, qual è il dibattito? Se “onorano la maglia”, se i nostri undici multietnici ragazzotti, proprio perché tali, un po’ balcanici, un po’ africani, un po’ tutto tranne che puri svizzeri da otto generazioni, possano sentirsi autorizzati a rappresentarci e siano in grado di farlo.
E via con il dibattito, acceso, sulla loro indifferenza verso la missione patriottica che sono chiamati a svolgere, tutto concentrato sulla loro muta e passiva accettazione dell’esecuzione, nel pre-partita, del Salmo svizzero. Ecco, muti perché indifferenti, indifferenti perché, in fondo, ben poco “svizzeri”. Beh, certo, che nove o dieci undicesimi della squadra nazionale rossocrociata siano giocatori dal doppio o triplo passaporto è un dato di fatto, ma poi, toh, un semplicissimo video di SRF già diventato virale, mostra esattamente lo stesso mutismo in nazionali di anni e decenni precedenti, quando in squadra c’erano anche, nientemeno, che svizzerissimi, anzi ticinesissimi come Zappa e Sulser, per dire.
Prendere semplicemente atto che la nostra nazionale, come tante altre, sia una sorta di particolare specchio dei cambiamenti del paese degli ultimi decenni, mostri la sua capacità di accoglienza ed integrazione, non pare proprio sfiorare la narrazione di chi vorrebbe riaffermare la logica del “Blut und Boden”.
Poi c`è chi ritorna ad esternazioni passate dei nostri prodi in cui più che farsi biondi o tatuati “mettevano le ali” (ma non come la Red Bull) per mandare agli avversari e soprattutto al mondo degli spettatori un messaggio politico ben preciso, legato alla insanguinata storia recente dei Balcani. E poi avanti, di riprovazione in riprovazione, per arrivare a non apprezzare l’urlo liberatorio di Seferovic verso la telecamera dopo aver segnato il primo gol alla Turchia.
Così tutto diventa un tema fondato sulla “simpatia” o l’”antipatia” di uno o dell’altro, insomma sul nulla. Ma amplificato da un fatto certo: l’Europeo ed altri eventi simili, rappresentano un’occasione ghiottissima per amplificare qualsiasi messaggio, qualsiasi momento, grazie al potentissimo occhio della trentina di telecamere disseminate intorno al rettangolo di gioco che i calciatori sanno bene dove sono posizionate e come le possono sfruttare.
Certo, eventi globali come questo, portano in tutte le case, brutalmente, anche drammi personali come quello del calciatore danese Eriksen, morto clinicamente in campo e salvato per miracolo dal proprio capitano e dai medici della squadra in un clima di comprensibile angoscia e commozione collettiva che fa ora dei danesi dei “veri uomini” (loro sì, mica i nostri).
Che il calcio sia da tempo uno spettacolo mediatico non è certo un mistero per nessuno. E che fra i calciatori, mediaticamente, ci sia chi conta di più di altri, nemmeno.
Perché stupirsi, dunque, se in una conferenza stampa post-match, Cristiano Ronaldo possa permettersi di spostare due bottigliette di Coca Cola che si trova davanti (in quanto bibita sponsor) affermando che è una bibita che fa male per il troppo zucchero e che lui stesso vieta ai figli che obbliga a bere acqua? Sa di essere guardato da tutto il mondo, soprattutto dai suoi milioni di followers sui social. Risultato? In pochi giorni la Coca Cola pare abbia perso 4 miliardi di dollari in Borsa.
Gli dei del pallone hanno pure questo potere, e la federazione che redarguisce il divo portoghese ricordandogli le regole ed il rispetto per gli sponsor appare, una volta di più, fra ridicola e patetica.
Ed è ancora l’UEFA ( che ormai gioca di rincorsa o di rimessa) ad illustrarsi per un suo nuovo segnale di fermezza nell’impedire alla federazione tedesca di illuminare lo stadio di Monaco con luci color…arcobaleno. Perché una simile iniziativa? Per sottolineare il sostegno della federazione e del Bayern, proprietario dell’impianto, alla causa LGBTQ. Non sia mai detto, proprio quando la Germania gioca contro l’Ungheria, cioè un democraticissimo paese europeo che ha votato una legge che impedisce di occuparsi di temi “di genere” sotto i diciotto anni.
L’UEFA ribadisce che non si fa politica (?), l’Ungheria politica ringrazia con sollievo dicendo che ha prevalso il buon senso. Sì, quel buon senso che prevale nel paese che non vuol saperne di orientamenti sessuali diversi da quelli “tradizionali” che brandisce con fierezza in una delle sue industrie più floride, quella del porno, di cui Budapest è capitale europea dagli anni ’90 (ma anche quello è V.M.18!!)
Insomma, di esempio in esempio, non si riesce proprio a trovare uno spunto di vero calcio. Tutt’al più si può parlare ancora di “stadio”, pensando al nostro modesto microcosmo luganese che si prepara a lanciarsi nell’impresa del nuovo Polo Sportivo e degli Eventi. Fra i tanti interrogativi ancora irrisolti, pareva assodato almeno un dato: che ci fosse una squadra che nel nuovo impianto deve giocarci. Ora, anche lì, siamo nel campo delle ipotesi che passano dal roboante al depressivo.
Attesa una svolta quasi epocale, in arrivo una nuova dirigenza, pacchi di soldi, un allenatore brasiliano di grande fama (il quasi settantenne brasiliano Abel Braga), un centravanti da paura (il 37enne Demba Ba): insomma un “progetto societario” che guarda al futuro (?). Ma dopo settimane di vana attesa, della nuova dirigenza (e dei suoi soldi) neanche l’ombra. Ed ora il presidente uscente Renzetti torna in scena e al comando, più martire che eroe, e parafrasando una battuta sentita nel programma RSI di tarda serata “Zeuro in condotta”, arrivato Demba Ba mancano i … quaranta ladroni.
Aspettiamo che si pronunci la Federazione svizzera. Magari anche l’UEFA, perché no. Tanto arriva sempre in ritardo.
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